sabato 14 febbraio 2015

I bilingui sono più intelligenti? Ma che esagerazione!


Uno studio recente di Angela de Bruin, Barbara Treccani e Sergio DellaSala pubblicato sul numero di gennaio della rivista Psychological Science ha smontato alcune teorie apparentemente acquisite sui benefici del bilinguismo e più in generale sulle distorsioni della comunicazione dei risultati scientifici.

Un lavoro coraggioso, di non facile accettazione da parte dei revisori della rivista stessa e che mette in risalto quattro punti fondamentali:
- è importante analizzare e pubblicare anche i risultati negativi o nulli degli esperimenti condotti per verificare un'ipotesi scientifica;
- l'esagerazione dei risultati è un virus che colpisce molti scienziati (magari per ragioni di sopravvivenza legata alla gara per i fondi di ricerca ma non per questo giustificata);
- la modalità di presentazione dei risultati modifica le opinioni e le scelte del pubblico e ha un impatto sulle politiche educative e di integrazione e proprio per questo non può essere basata su dati parziali;
- più lingue sai più ne giovano la tua comunicazione verbale e le tue relazioni ma - ahimé - non è ancora sufficiente per diventare più intelligente o più abile in compiti sofisticati o addirittura per ritardare l'esordio di demenza.

Ne ho parlato in una conversazione tramite posta elettronica con uno degli autori, Barbara Treccani, ricercatrice e docente di psicologia generale all'Università di Sassari.

Una lunga narrazione attraverso le difficoltà del percorso di pubblicazione, i messaggi che discendono dallo studio, l'analisi critica della letteratura scientifica, l'autocritica, gli strumenti – limitatissimi – di uno scienziato italiano... e Santa Lucia!

Ah la conversazione stava per chiudersi con conseguenze negative ma...


- Psychological Science è stata l'ultima o l'unica rivista alla quale inviato il vostro articolo?
Prima di inviare l’articolo, abbiamo cercato di capire quali riviste potevano essere interessate alla sua pubblicazione, cioè quali riviste accettano contributi di questo genere. Si tratta infatti di uno studio empirico, ma sui generis (non prevede, cioè, il classico esperimento o gruppo di esperimenti). Ci è stata consigliato di inviarlo a Psychological Science. Abbiamo provato ed è andata bene.

- Quanto tempo è trascorso dall'invio del manoscritto alla pubblicazione?
Abbiamo mandato l'articolo il 6 marzo 2014 ed è stato accettato il 7 ottobre 2014 (pubblicato online a dicembre 2014). Abbiamo ricevuto la prima review (con i commenti di 5 revisori!!!) il 23 aprile, fatto le modifiche e inviato nuovamente. Dopodiché l'attesa è stata piuttosto lunga. L'editor ha giustificato l'attesa dicendo che la decisione è stata particolarmente difficile visto che le opinioni dei revisori divergevano considerevolmente: si andava dal totale entusiasmo ("assolutamente sì!") all'opposizione feroce ("un simile articolo non può essere pubblicato!").

E' da notare che queste critiche (e - a dire il vero - anche alcune delle lodi) erano maggiormente incentrate su quanto poteva essere dedotto a partire dai nostri risultati (cioè che gli effetti del bilinguismo sul controllo esecutivo potrebbero essere minori rispetto a quanto suggerito dalla letteratura), piuttosto che sulla bontà del nostro lavoro, la correttezza della metodologia, ecc. Abbiamo riscontrato il medesimo atteggiamento nei commenti contenuti in varie mail che ci sono state inviate dopo la pubblicazione del lavoro.

Le critiche riguardavano le possibili conseguenze negative legate alla diffusione del messaggio contenuto nel nostro articolo: questo messaggio viene addirittura visto da alcuni come qualcosa in grado di ostacolare il multiculturalismo e i processi di integrazione (o persino di promuovere atteggiamenti xenofobi), che sarebbero invece favoriti da quegli studi che mostrano vantaggi cognitivi del bilinguismo. Alcuni dei sostenitori di tale vantaggio sembrano avere una vera e propria fede in esso: si parte dall'assunto che il vantaggio ci sia - a loro appare come un dato incontestabile, assodato - e ciò che si propongono è semplicemente di dimostrarlo, e non più di valutare se sia effettivamente un fenomeno reale, robusto e non sia spiegabile da altre variabili in gioco.

If you make a theory, for example, and advertise it, or put it out, then you must also put down all the facts that disagree with it, as well as those that agree with it. Richard P. Feynman

Questo, come dicevo, è evidente nei commenti di alcuni revisori del nostro lavoro e nelle lettere che ci sono giunte da altri (scienziati e non). Tra questi, vi sono anche alcuni colleghi che ci hanno confessato di aver ricevuto messaggi adirati da parte di ricercatori che lavorano nel settore, proprio perché ritenuti responsabili della pubblicazione di studi che, non avendo evidenziato un vantaggio dei bilingui, gettano ombra su quei lavori che stanno invece facendo “buona pubblicità” al fenomeno (l'unico altro argomento in grado di dar luogo a simili reazioni - aggiunge uno dei colleghi- sono gli articoli che deviano dalla "dottrina dei mirror neurons"). Ovviamente, in questo caso si tratta solo di notizie riferite (non ho avuto modo di esaminare i messaggi in questione), ma sono compatibili con l’atteggiamento che abbiamo talora riscontrato direttamente anche noi.

Noi siamo convinti che la possibilità di esprimersi in due o più lingue sia qualcosa di estremamente positivo: permette di comunicare con un maggior numero di persone, favorendo più ampi contatti e sviluppando la capacità di comprendere culture diverse. Una maggiore diffusione del bilinguismo è dunque un risultato assolutamente auspicabile e non sono giustificati, sulla base delle evidenze a nostra disposizione, i pregiudizi che alcuni genitori o altre figure educative hanno nei confronti dell’apprendimento di una seconda lingua (si vedano, ad esempio, le convinzioni circa un possibile ritardo nello sviluppo linguistico in bambini bilingui). E’ inoltre certamente possibile che il bilinguismo (non necessariamente o non solo a causa dell’innesco dei processi che permettono di gestire due lingue) abbia delle conseguenze su meccanismi cognitivi non linguistici: come tutte le abilità umane, anche il bilinguismo necessariamente avrà un impatto a livello più generale, cioè anche sui meccanismi non direttamente coinvolti.

Tuttavia, siamo anche convinti che non si possano promuovere politiche volte alla diffusione del bilinguismo filtrando i risultati negativi o nulli e selezionando solo i risultati che mostrano un vantaggio dei bilingui.

Termino facendo una precisazione relativa alla situazione italiana. Molti ritengono che questo tipo di ricerca possa incoraggiare l’insegnamento delle lingue straniere (es. della lingua inglese), aspetto così trascurato in Italia. Leggo anche molti articoli che sottolineano, citando questi lavori, che i nostri bambini potranno diventare più “intelligenti” grazie all’apprendimento di un’altra lingua. Va però ricordato che nella gran parte delle regioni italiane il monolinguismo praticamente non esiste (tant’è che è ben difficile condurre questo tipo di ricerche qui: manca il gruppo monolingue di controllo). Moltissime persone parlano un dialetto oltre all’italiano. Secondo la teoria alla base di questo tipo di ricerca è il fatto di alternare continuamente tra due idiomi a sviluppare le capacità di controllo, e ciò dovrebbe avvenire indipendente dal fatto che tali idiomi siano stati classificati come “lingue” vere e proprie.

- In un importante editoriale pubblicato su BMJ, Ben Goldacre (BMJ 2014;349:g7465) fa il punto sulle evidenze che provano come siano gli stessi accademici i primi responsabili dell'esagerazione con cui la stampa riporta le notizie scientifiche. I comunicati stampa inviati dai laboratori universitari alle agenzie di stampa contengono già, oltre ai risultati sperimentali, frasi tanto entusiastiche quanto irrealistiche sull'impatto di quei risultati. Questa forzatura accade non solo nel rapporto tra scienziati e giornalisti ma anche nel rapporto tra scienziati che condividono lo stesso ambito di ricerca. Difatti, nel vostro studio avete scelto di analizzare gli abstract presentati alle conferenze scientifiche, che dovrebbero essere il luogo delle dispute e delle discussioni. Eravate consapevoli, durante lo svolgimento del lavoro di questo terzo messaggio fondamentale del vostro studio cioè quello di promuovere l'analisi critica nelle comunicazioni tra scienziati?
Decisamente sì. Tra i motivi che ci hanno inizialmente spinti ad approfondire la questione vi era senz'altro il desiderio di far chiarezza su una credenza, quella relativa al vantaggio dei bilingui nei processi di controllo inibitorio, che noi stessi abbiamo contribuito a creare. Come sottolineiamo all'interno dell'articolo pubblicato su Psychological Science, "We ourselves are guilty".

Nel 2009, io e uno degli autori dell'articolo (Sergio Della Sala) abbiamo pubblicato i risultati di un esperimento che suggeriva che i partecipanti bilingui da noi analizzati avessero effettivamente maggiori capacità di controllo inibitorio rispetto ai monolingui (Treccani et al., 2009).




I partecipanti a questo esperimento, tuttavia, avevano eseguito altri tre compiti basati sul controllo inibitorio, ma in questi altri compiti non erano emerse differenze tra bilingui e monolingui. Questi ultimi risultati (nulli) non sono stati pubblicati.

L'articolo di Psychological Science contiene dunque un mea culpa.

A questo proposito, invito a leggere un altro interessante mea culpa (Klein, 2015) da parte di uno degli autori del lavoro che ha dato inizio agli studi nel settore (Bialystok et al., 2004). L'altra ragione che ci ha spinti a far chiarezza sono proprio le discussioni (ufficiose) avute con i colleghi durante varie conferenze scientifiche. Nella maggior parte degli studi sul bilinguismo riportati in tali conferenze veniva messo in luce un vantaggio cognitivo dei bilingui. Malgrado ciò, in queste conversazioni informali, molti colleghi dichiaravano di aver svolto studi in cui non avevano trovato alcuna differenza.

Abbiamo cercato di approfondire (sempre in maniera abbastanza informale), inviando per e-mail ad alcuni gruppi di ricerca una richiesta di informazioni circa eventuali esperimenti non pubblicati in cui non erano state riscontrate differenze. Abbiamo ricevute ben poche risposte. A questo proposito è utile sottolineare che lo studio pubblicato su Psychological Science prevedeva anche un questionario inviato a tutti gli autori degli abstract di conferenze analizzati. In tale questionario venivano richieste informazioni circa il motivo per cui il lavoro non era stato pubblicato (es. il lavoro non era stato accettato dalla rivista a cui era stato inviato, gli autori stessi avevano ritenuto che lo studio fosse sufficientemente buono e non meritasse la pubblicazione o, al contrario, ritenevano che, dati i risultati, lo studio non sarebbe stato accettato, ecc..).

Anche in questo caso, abbiamo ricevuto ben poche risposte. In realtà abbiamo addirittura ricevuto un esplicito rifiuto a partecipare all'indagine proprio da parte di Ellen Bialystok, cioè una delle principali ricercatrici in questo ambito (possiamo anche dire colei che ha dato avvio a questo tipo di ricerca) e che è a capo del gruppo di ricerca più produttivo. Il rifiuto era accompagnato da una spiegazione delle sue motivazioni (fondamentalmente, lei non riteneva utile e sensata questo tipo di indagine). È ovvio che non abbiamo dunque potuto avere le informazioni di cui avevamo bisogno ed è altrettanto ovvio che, in questo settore, ci sono dei grossi ostacoli all'analisi critica nelle comunicazioni tra scienziati.

- Il secondo messaggio concerne l'importanza della pubblicazione anche dei risultati scientifici negativi per non incorrere nell'amplificazione degli effetti di risultati parziali e non replicati. Ti è capitato di incorrere nell'effetto 'file drawer' in un precedente studio, com'è andata?
Come dicevo poc'anzi, questo nostro lavoro parte proprio da un caso di file drawer di cui siamo responsabili. L’esperimento da noi pubblicato nel 2009 si basava su un compito di priming negativo spaziale. In questo compito abbiamo trovato interessanti differenze tra monolingui e bilingui (tra l’altro non necessariamente nella direzione di un effettivo “vantaggio” di questi ultimi). I partecipanti all’esperimento eseguivano però tre altri compiti in cui non abbiamo trovato differenze.

Il nostro articolo riporta solo l’esperimento nel quale le differenze erano significative.

Che dire... abbiamo pensato che gli altri compiti non fossero sufficientemente sensibili, che coinvolgessero altre abilità nelle quali le differenze tra bilingui e monolingui sono meno evidenti rispetto alle funzioni di controllo inibitorio o, semplicemente, che si trattasse di un errore di II tipo. In effetti, tra questi compiti vi era anche un compito Simon, cioè il compito per il quale, nel famoso studio di Bialystok et al. (2004), venivano riportate differenze tra bilingui e monolingui incredibilmente ampie: l’ampiezza dell’effetto, d di Cohen, andava da 1,8 a 2,99!!! (un effetto che potremmo definire miracoloso).


E’ forse per il fatto che tali differenze erano così marcate che l’articolo di Bialystok e collaboratori ha fatto tanto clamore e ha stimolato l’enorme mole di studi che hanno fatto appunto seguito alla sua pubblicazione. Le differenze riportate da Bialystok et al. sono talmente ampie che sarebbero bastati un pugno di partecipanti per poter ottenere con una buona probabilità differenze significative (quindi era da escludersi o da ritenersi poco verosimile l’ipotesi di una bassa potenza del nostro esperimento).

Tuttavia, in studi successivi (taluni svolti dalla stessa Bialystok), simili differenze tra bilingui e monolingui nel compito Simon non sono state più riportate. A dire il vero, non si sono neppure più riscontrate differenze nell’ampiezza dell’effetto Simon (vantaggio delle prove compatibili su quelle incompatibili): quando sono state trovate, le differenze riguardavano altri aspetti, quali, ad esempio, il tempo di reazione complessivo (dunque l’interpretazione stessa del vantaggio dei bilingui è cambiata).

In ogni caso, non era così chiaro quello che ci si doveva aspettare e, visto che si trattava di uno short paper, abbiamo optato per discutere il solo esperimento che mostrava l’effetto. Successivamente, tuttavia, abbiamo condotto un nuovo esperimento che utilizzava lo stesso compito di priming negativo spaziale in cui avevamo trovato differenze tra bilingui e monolingui, ma non siamo riusciti a replicare l’effetto del bilinguismo.

A questo punto, era doveroso fare chiarezza sulla questione.

Devo dire che ad insistere particolarmente sulla necessità di far chiarezza è stato uno dei miei co-autori: Sergio Della Sala. Sergio è molto sensibile al problema, dato anche, io credo, il ruolo che riveste all’interno di Cortex (se ne può parlare o è considerata pubblicità?). Questa rivista negli ultimi anni si sta appunto impegnando nel cercare di fare in modo che tutti i risultati dei “buoni” esperimenti siano pubblicati, indipendentemente dal risultato (significativo o meno). Si veda a questo proposito il nuovo tipo di articolo da loro introdotto, cioè i registered reports.

Devo dire che il problema del file drawer non si è posto per altri lavori a cui ho partecipato. In effetti quello del 2009 è stato l’unico “quasi esperimento” che ho condotto.

I miei esperimenti riguardano aspetti come la selezione della risposta, il response priming, la rappresentazione delle conoscenze, l’elaborazione spaziale, l’elaborazione implicita vs. quella esplicita, e in genere mi interessa capire i meccanismi alla base di questi processi - non mi occupo di differenza tra gruppi. In questi esperimenti, imperano dunque le variabili entro i soggetti e solitamente li pianifico in modo tale da non avere risultati nulli: se non mi aspetto un effetto significativo in una certa condizione (o comunque ho il dubbio che potrei non trovarlo), affianco a questa condizione una condizione di controllo in cui mi aspetto senz’altro l’effetto, in modo da ottenere comunque un’interazione significativa.

Sono soddisfatta quando riesco ad escogitare un disegno sperimentale relativamente elegante, che dia comunque informazioni nell’immediato, qualunque sia il risultato (anche i risultati nulli informano, ma il tipo di informazione che danno è ovviamente diverso e va letto alla luce di tutti gli altri dati disponibili ottenuti in altri studi). Lo ammetto, è questo il tipo di ricerca che mi diverte di più.

- Il primo messaggio del vostro lavoro è che la teoria del vantaggio cognitivo del bilinguismo si sia finora fondata su una distorsione che ha portato a pubblicare su riviste scientifiche la maggior parte dei risultati positivi (il 68%) e una minima parte dei risultati negativi (29%) precedentemente presentati ai congressi. Per vantaggio cognitivo si intende la dimostrazione che i bilingui siano più abili dei monolingui a svolgere dei compiti che richiedono funzioni cognitive superiori (controllo, inibizione dell'interferenza, memoria di lavoro). Avete ulteriori dati al riguardo?
In questo momento non mi sto dedicando ad altri studi empirici sull’argomento. Il primo autore del lavoro pubblicato su Psychological Science (Angela de Bruin) sta però svolgendo il suo dottorato di ricerca su questa tematica. Non mi pare che, per ora, abbia avuto successo nel trovare significative differenze tra bilingui e monolingui. Si tratta tuttavia semplicemente di un singolo lavoro. In ogni caso, proprio in questi mesi stanno uscendo numerosi articoli che esaminano in maniera critica la questione in una prospettiva più ampia. A questo proposito, consiglio la lettura dell’articolo di Raymond Klein a cui accennavo sopra (Klein, 2015) e dei lavori di Kenneth Paap (Paap, 2014, Paap, Johnson, & Sawi, 2014).

the early (pre-2011) evidence in favour of a BEPA [Bilingual Advantage= congruent RT for monolinguals minus that for bilinguals] may have been generated by a dual-edged publication bias: for papers whose narrative is consistent with that of an exciting series of studies by a world-famous expert and against papers reporting null results. Raymond M. Klein

- Puoi descrivere il tuo laboratorio e gli strumenti di lavoro?
Beh... diciamo che attualmente non ho un vero e proprio laboratorio. Collaboro con vari gruppi di ricerca a cui mi devo obbligatoriamente appoggiare per poter accedere a spazi, strumenti, materiali. Da novembre 2012 faccio parte del Dipartimento di Storia, Scienze dell'Uomo e della Formazione dell'Università di Sassari e sto ancora cercando di organizzare il laboratorio di psicologia sperimentale (dovremo in realtà partire con i primi esperimenti a breve). Mi dedico comunque prevalentemente a studi comportamentali, quindi mi bastano una stanza, un computer e un software per la programmazione ed esecuzione di esperimenti che prevedono la registrazione dei tempi di reazione. In generale, i partecipanti ai miei esperimenti sono adulti, neurologicamente intatti, ma ho effettuato anche lavori con pazienti (sempre adulti) con lesioni cerebrali.


- Quanti fondi di ricerca hai a disposizione ogni anno?
Attualmente nessuno. Per ora, i miei colleghi a Sassari usufruiscono dei fondi di ricerca distribuiti prima della mia assunzione. Per ottenere fondi mi dovrò dar da fare con i vari bandi e progetti regionali, nazionali, europei. Al momento non ho molto tempo da dedicare a questo genere di cose. Ovviamente, tuttavia, senza fondi non posso sperare in una anche minima autonomia di ricerca.

P.S. So che con quest’ultimo commento mi gioco la tua simpatia e stima (e forse anche l’amicizia in fb), ma leggendo la parte finale dell’articolo di M. Konnikova [Isbilingualism really an advantage?] mi sono cadute le braccia.

In questa parte finale, lei dichiara che la differenza tra bilingui e monolingui non sembra risiedere tanto nelle capacità dimostrate durante lo svolgimento di determinati compiti, quanto nell’abilità di contrastare il declino cognitivo dovuto all’età. In questo, le differenze tra bilingui e monolingui sarebbero notevoli.

Ora, le ragioni per cui i bilingui dovrebbero essere maggiormente protetti dal declino sono le medesime che li dovrebbero avvantaggiare nei compiti di controllo inibitorio. In effetti, i due fenomeni - se di due fenomeni distinti possiamo parlare - vengono indagati con strumenti simili e dai medesimi gruppi di ricerca, dunque è chiaro che gli stessi problemi (tra cui, appunto, il pubblication bias) potrebbero affliggere anche questi studi (così come – diciamolo – gli studi in molti altri settori).

In realtà, nella nostra indagine noi non abbiamo escluso i lavori che coinvolgevano anziani e le nostre considerazioni riguardano dunque tutta la letteratura sugli effetti cognitivi non linguistici del bilinguismo (potenziamento cognitivo in individui giovani-adulti e/o rallentamento del declino in anziani).

È chiaro che il messaggio non è arrivato completamente.

Ciò è un preoccupante indice del fatto che questo tipo di fallacia può interessare anche persone che sono abituate ad analizzare criticamente i fatti.

Leggere quella parte dell’articolo mi ha fatto pensare ad un aneddoto della mia infanzia. Non ricordo esattamente l’età, ma ero piuttosto grandicella. Ciononostante, ero ancora molto ingenua e tendevo a credere ciecamente a tutta una serie di fenomeni magici. Rimasi molto male quando un’amica di Milano mi disse, divertita, che c’erano bambini della nostra età che ancora credevano a Babbo Natale. Anche se da noi, a Brescia, Babbo Natale “non passava”, io ero appunto convinta che Babbo Natale esistesse e si occupasse di altre zone d’Italia. In ogni caso, mi ripresi subito (il credo a cui ero più legata non era stato direttamente colpito) e risposi: “Come possono crederci? E’ ovvio che Babbo Natale non esiste … per fortuna da noi a portare i regali è Santa Lucia!” (mia madre, seduta lì accanto, si scompisciò dalle risate – non gliel’ho ancora perdonato).



Solo la generosità nell'approfondimento delle risposte di Barbara mi ha permesso di perdonarle questa critica – ahimé fondata - all'adorata Konnikova.



Bibliografia
Bialystok, E., Craik, F. I., Klein, R., & Viswanathan, M. (2004). Bilingualism, aging, and cognitive control: Evidence from the Simon task. Psychology and Aging, 19, 290–303.
Klein, R. (2015). Is there a benefit of bilingualism for executive functioning? Bilingualism: Language and Cognition, 10,, 29-31
Paap, K. R. (2014). The role of componential analysis, categorical hypothesising, replicability and confirmation bias in testing for bilingual advantages in executive functioning. Journal of Cognitive Psychology, 26, 242–255.
Paap, K. R., Johnson, H., Sawi, O (2014). Are bilingual advantages dependent upon specific tasks or specific bilingual experiences? Journal of Cognitive Psychology, 26, 615-639.
Treccani, B., Argyri, E., Sorace, A., & Della Sala, S. (2009). Spatial negative priming in bilingualism. Psychonomic Bulletin & Review, 16, 320–327.





Nessun commento:

Posta un commento