lunedì 8 maggio 2017

Il terrorista secondo l’approccio socio-psicologico: l’analisi di David Webber e Arie Kruglanski


Le notizie di attentati terroristici perpetrati nei Paesi occidentali sono riportate secondo uno schema usuale: la cronaca dell’atto criminale, le interviste ai vicini di casa dell’assassino, la ricerca ossessiva di punti critici nella storia personale e l’individuazione di qualche sintomo di disagio che diviene spiegazione unica dell’attacco.
Come avevo scritto in Ultime notizie: l’assassino è un pazzo, “ricorrere ai disordini mentali per spiegare le motivazioni di un assassinio è un esercizio di ragionamento circolare ma non è una novità”.
In situazioni di incertezza si diffondono spiegazioni stereotipate per modulare la paura e dare immediate rassicurazioni.
“La tendenza attuale è quella di non citare d’immediato le motivazioni ideologiche di un attacco alla sicurezza pubblica, di avere riguardo per gli estremismi di destra e per il terrorismo politico e jihadista e di sfruttare retoricamente il solido pregiudizio dei malati mentali violenti”.
Lo scrivono anche David Webber e Arie Kruglanski, professori di psicologia ed esperti di terrorismo e radicalizzazione, autori dell’articolo The Social Psychological Makings of a Terrorist che sarà pubblicato sulla rivista Current Psychology.
The favored explanations proffered to lay audiences locate the cause of the attack within the individual attacker. They consist of internal attributions that blame violence on a personality flaw, psychological disorder, or mental illness [1,2,3,4]. Not only are humans psychologically biased to perceive the behavior of others as internally determined, particularly when it is unusual [5,6], but such explanations are comforting and gratifying. These explanations ascribe terrorists’ actions to a few unstable individuals, and disguise the fact that terrorism may constitute a widespread social psychological phenomenon.
Whereas such explanations satisfy the public, they are at odds with scientific evidence [7,8,9,10,11,12,13].
Le spiegazioni giornalistiche attribuiscono le azioni terroristiche a pochi individui instabili, mascherando la realtà del terrorismo, che può costituire un diffuso fenomeno socio-psicologico.
Come precisano i due autori, tali spiegazioni soddisfano il pubblico, ma si scontrano con le evidenze scientifiche.
Le prove scientifiche finora dimostrate sono le seguenti:
  • - la principale caratteristica condivisa dai terroristi è la loro normalità;
  • - le cause di un attacco terroristico possono essere comprese solo guardando oltre l’individuo, al gruppo e al contesto sociale in cui è inserito;
  • - in pochi casi sono stati individuati disturbi mentali o specifici tratti di personalità come parziali fattori causali.
L’articolo è molto interessante sia nell’analisi, sia nelle applicazioni suggerite per contrastare la diffusione della radicalizzazione e del terrorismo. Lo riporto di seguito in modo dettagliato.
L’approccio socio-psicologico sostenuto dagli autori è rivolto a evidenziare le forze sociali che determinano la radicalizzazione, cioè il passaggio da comportamenti socialmente condivisi a un comportamento violento che viola le norme sociali.
I fattori coinvolti sono tre: la motivazione individuale (bisogni), la giustificazione ideologica della violenza (narrazioni), i processi di gruppo (reti).
Esperienze di vita difficili e un vissuto di umiliazione creano una discrepanza tra aspettative positive e prospettive negative. Tale discrepanza può generare la motivazione individuale ad agire — i bisogni— per ristabilire un senso di valore e dignità individuale.
Si tratta di condizioni che interessano gran parte della popolazione mondiale e non sufficienti da sole a far progredire verso l’estremismo. Per Webber e Kruglanski, occorrono allora gli altri due fattori aggiuntivi, le ‘opportunità’, che sono l’ideologia e i processi di gruppo.
Le narrazioni dettate dall’ideologia identificano un nemico e rappresentano la violenza contro di esso come azione legittima. L’adesione a un’ideologia annulla il senso di colpa tipicamente associato al commettere un atto violento. Questo processo è facilitato da tattiche di deumanizzazione del nemico e di indottrinamento in forme di pensiero semplicistiche che danno significato al proprio esistere.
I processi di gruppo si riferiscono alla presenza di altri individui radicalizzati nella propria rete sociale. La presenza di alleati nella causa aumenta la propensione a deviare dalle pressioni normative, convalida l’appropriatezza dell’ideologia e giustifica l’assassinio, crea un senso di appartenenza e di identità collettiva per la cui difesa si è disposti a morire.
Secondo Webber e Kruglanski, è la combinazione di bisogninarrazioni e reti a determinare la progressiva radicalizzazione. L’affiliazione a un gruppo terroristico fornisce il significato personale di cui l’individuo ha bisogno.
Il processo inverso, la deradicalizzazione, per gli autori, è basato sugli stessi fattori.
L’insoddisfazione dei propri bisogni all’interno dell’organizzazione può portare all’uscita da essa, alla ricerca di una migliore qualità di vita altrove. In base alle interviste di ex-estremisti, per alcuni l’uscita è determinata da uno scarso eroismo dell’organizzazione, per altri dal bisogno di costruire una famiglia.
La disillusione per l’ideologia e la messa in discussione dell’utilità della violenza sono le narrazioni che portano alla deradicalizzazione. Ci sono estremisti che hanno abbandonato l’ISIS ritenendo che gli attacchi terroristici contro altri musulmani siano controproducenti e illegittimi dal punto di vista religioso.
Infine, il fattore delle reti si è dimostrato il più importante: la disillusione verso i leader o gli altri membri dell’organizzazione terroristica. Morire per qualcuno che non si ritenga più degno di tale sacrificio rompe l’identità collettiva. Alcuni ex-estremisti hanno abbandonato l’ISIS perché stanchi delle ipocrisie e dei comportamenti anti-islamici dei militanti e dei leader. Nei movimenti di estrema destra tedeschi, l’abbandono è stato determinato dalle relazioni strette al di fuori della rete estremista. Per alcuni queste esperienze sono maturate in carcere, dove gli estremisti sono entrati in contatto con individui che erano precedentemente percepiti come nemici.
Come sostengono gli autori, queste ipotesi teoriche andranno ulteriormente confermate dai dati empirici.
Tuttavia, possono già rappresentare delle indicazioni di intervento sociale, culturale e politico per ridurre il fascino della radicalizzazione e favorire precocemente la deradicalizzazione.
Sono uno strumento razionale e scientifico contro il terrorismo, di immediata applicazione e che invitano a superare l’approccio interpretativo stereotipato, affidandosi invece a un’analisi socio-psicologica del fenomeno.
Originally published at https://medium.com/@timetit/i-dieci-giorni-in-manicomio-di-elizabeth-jane-cochran-la-prima-giornalista-investigativa-della-1d8d2104324d on May 7, 2017

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