Non
passa settimana che non giunga un allarme sui devastanti effetti che
le nuove tecnologie producono per ragazze e ragazzi.
Puntualmente
il grido di dolore arriva anche da qualche esperto - clinico,
insegnante, scienziato - sulla base di esperienze personali,
aneddoti, luoghi comuni e ...proprie paure generazionali lasciate in
libertà.
Di
chi fidarsi?
Gli
psicologi Amy Orben,
Pete Etchells e
AndyPrzybylski hanno
scritto ieri un articolo sul Guardian, elencando
tre avvertenze che possono aiutarci a leggere con senso critico le
notizie sull'impatto delle nuove tecnologie e per esteso tutte le
notizie scientifiche.
1.
Trovare buone prove è più di una semplice ricerca su internet
Ottenere una visione d'insieme delle evidenze, specialmente in un dibattito acceso e complesso è difficile. Accademici, funzionari pubblici e altri soggetti interessati devono riconoscere che inserire alcune parole di interesse in un motore di ricerca fornirà una visione intrinsecamente distorta dello stato attuale del campo.
Il
motore di ricerca ci restituisce quello che vogliamo sapere – dato
che noi inseriamo come parole per la ricerca solo quelle che
confermeranno la nostra opinione (ad es. “videogiochi” e
“violenza” ma non “videogiochi” e “benessere”, oppure
“cellulari” e “danni al cervello” ma non “cellulari” e
“benefici sul comportamento”) – e quello che è stato più
cercato o che è più pubblicizzato.
Le informazioni che stai utilizzando provengono da un sito web non verificato o da un articolo scientifico pubblicato?
Se sì, si tratta di un articolo pubblicato, chi ha condotto lo studio? Hanno conflitti di interesse?Lo studio è stato eseguito correttamente e i dati e i materiali possono essere trovati su Internet?Queste sono le domande che dovremmo usare per verificare qualsiasi evidenza ci venga fornita, indipendentemente dalla fonte.
A
volte tendiamo a fidarci ciecamente di guru e eminenti scienziati –
noi italiani addirittura cantanti, attori, personaggi della tv - e
per pigrizia rinunciamo a porci queste domande fondamentali che
tengono in allenamento il pensiero critico.
2.
Il “tempo sullo schermo” è un concetto privo di significato
Il dibattito pubblico viene forzato se riteniamo che l'uso della tecnologia abbia un principio attivo simile a quello dei farmaci, in cui ogni grammo aggiuntivo ha un effetto evidente su ogni persona.
Bisogna stare quindi
attenti ai proclami sui tempi massimi di esposizione e anche alle
generalizzazioni per tutti i dispositivi.
L'uso della tecnologia è incredibilmente diversificato e, se fingere che sia un concetto unitario può essere conveniente, rende impossibile interpretazioni sensate. Dieci minuti di conversazione con un nonno su Skype non avranno lo stesso effetto di guardare dieci minuti di video su YouTube o di passare 10 minuti a guardare i pettegolezzi delle celebrità. Ciò è ulteriormente complicato dal fatto che gli effetti di un qualsiasi uso della tecnologia dipenderanno dall'utilizzatore, dalla sua storia, dalle sue motivazioni, dai suoi atteggiamenti e molto altro ancora.
3.
Le buone ricerche sull'argomento sono poche
Nella
maggior parte dei casi gli studi scientifici condotti fino a ora sono
viziati da un ridotto numero di soggetti, da una selezione pilotata
del campione, da questionari non correttamente strutturati, da come
vengono definiti i comportamenti e gli effetti negativi, da analisi
statistiche approssimative, da associazioni di variabili che possono
essere incidentali e non permettono di stabilire alcuna relazione di
causa-effetto tra un determinato dispositivo e un particolare
comportamento.
Solo perché le prove non ci sono ancora non significa che studi oggettivi e solidi non saranno pubblicati in futuro. Ma essendo intrappolati in questa situazione, crediamo che evidenziare con chiarezza l'attuale mancanza di prove sia vitale; basare le decisioni politiche su prove di bassa qualità o tendenziose sarebbe un fiasco per la politica e per la scienza.
La
situazione non è nuova, se pensiamo che gli stessi allarmi erano
stati cavalcati quando furono pubblicati i primi fumetti (ho
raccontato i protagonisti negli ultimi paragrafi di Le origini di Wonder Woman). La
storia ci ha dato delle pacate e fattuali risposte, confermando le
tesi e le ricerche degli scienziati onesti e scrupolosi e smentendo
quelle catastrofiche di chi era spinto da secondi fini.
Per
Orben, Etchells
e
Przybylski
la situazione attuale non è rassicurante.
Se
non abbiamo prove sufficienti e se non comunichiamo queste prove con
onestà ed efficienza, le persone ben intenzionate finanzieranno,
pubblicizzeranno e sosterranno campagne fuorvianti che non hanno
alcuna possibilità di raggiungere i loro obiettivi dichiarati. Ma
dobbiamo assolutamente trovare un modo se vogliamo uscire dal ciclo
apparentemente infinito di panico morale sulla più recente follia
sociale.
Da
noi siamo a cicli continuo di panico su diversi temi sociali
ampiamente strumentalizzati dalla politica...
Solo
qualche giorno fa attraverso il Daily Telegraph, la pluripremiata
neuroscienziata e baronessa Susan Greenfield, non nuova a invettive
infondate contro le nuove tecnologie, affermava che le reti sociali
digitali stanno rendendo i bambini incapaci di comunicare tra loro e,
non solo, prediceva che il loro uso porterà a uno stadio di sviluppo
cognitivo corrispondente ai tre anni.
Nel
corso degli anni la scienziata britannica, che nel 2013 ha creato una
propria azienda privata, la Neuro-Bio, per la ricerca sui
biomarcatori nelle malattie neurodegenerative, ha raccolto numerose
critiche da parte di altri scienziati proprio per la sua disinvoltura
nel fare affermazioni allarmanti per la società senza fornire prove
scientifiche con una validità almeno sufficiente. In tal modo è
diventata la beniamina delle associazioni che promuovono la
disconnessione dal mondo digitale.
Anche
da noi qualche scienziato di tanto in tanto si lascia andare all'onda
allarmista.
È
capitato a Ilaria Capua - virologa e attualmete professore
all'Università della Florida - quando ricopriva la carica di
Vicepresidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati*.
L'obiettivo del suo allarme, lanciato nella trasmissione televisiva Geo il 24 febbraio 2015, era il videogioco Grand Theft Auto
V.
Nel
suo intervento però non citava evidenze sperimentali sugli effetti
negativi dei videogiochi – di fatto non ci sono - ma un aneddoto
personale e un'indagine del filosofo Umberto Galimberti sulla
frequenza d'uso, concludendo sui gravi rischi del loro utilizzo nei
bambini e negli adolescenti.
Aggiungeva
una considerazione interessante: è “un mondo che noi genitori non
conosciamo”.
Proprio
questa non conoscenza è alla base delle paure di tanti
ultraquarantenni per le nuove tecnologie.
La risposta irrazionale è di invocare la proibizione quando si dovrebbe rendere obbligatoria l'educazione digitale, a tutte le età.
La risposta irrazionale è di invocare la proibizione quando si dovrebbe rendere obbligatoria l'educazione digitale, a tutte le età.
Dal
2015 abbiamo dimenticato gli effetti negativi di Grand Theft Auto V e
poi quelli di Pokemon Go. Ora siamo nel vivo degli allarmi per
Fortnite e durerà fino al prossimo videogioco...
*Ilaria
Capua è stata parlamentare nella lista Scelta Civica con Monti
per l'Italia dal 5 marzo 2013 al 28 settembre 2016.
Erano
gli anni crudeli di Stamina, della truffa di Vannoni e collaboratori,
della politica piegata alla pseudoscienza. Il decreto Balduzzi (Luigi
Balduzzi, Scelta Civica) entrava in vigore il 25 marzo 2013, sarebbe
stato approvato quasi all'unanimità alla Camera (504 voti
favorevoli, 1 contrario, 4 astensioni, 85 assenti tra cui Capua) e al
Senato (259 voti favorevoli, 2 contrari, 6 astensioni, 36 assenti) e
divenuto legge il 22 maggio 2013: avrebbe destinato 3 milioni di euro
alla sperimentazione di Stamina, come cura compassionevole.
Nessun commento:
Posta un commento