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domenica 9 gennaio 2022

La comunicazione della scienza psicologica tra credibilità e esagerazioni

 

Lasciare che la ricerca psicologica resti nelle torri d'avorio e continuare a scrivere articoli accademici solo per la piccola cerchia che di solito li legge potrebbero non rappresentare il miglior uso del denaro pubblico che finanzia direttamente o indirettamente chi fa ricerca.

È quanto scrivono Neil Lewis Jr. e Jonathan Wai all’inizio del loro articolo pubblicato quasi un anno fa, a febbraio 2021, e dal titolo Communicating What We Know and What Isn't So: Science Communication in Psychology

Gli autori affrontano il problema di una comunicazione responsabile soprattutto in tempi come questi in cui non v’è certezza e la psicologia si sta facendo carico di una crisi di riproducibilità che si estende anche oltre le scienze biomediche. 

A distanza di più di un secolo e constatati gli effetti perversi della smania scopritrice di fenomeni effimeri, si stanno recuperando quei metodi che erano stati convenientemente messi da parte ma che erano stati il fondamento della psicologia sperimentale. Come scrisse nelle sue memorie Anna Meyer Berliner, l’unica donna a completare nel 1913 il dottorato nel laboratorio di Wilhelm Wundt a Lipsia: “a quel tempo qualsiasi esperimento pubblicato da uno dei laboratori sarebbe stato ripetuto immediatamente da altre università, e senza una descrizione precisa di tutti i dettagli non sarebbe stata possibile una valutazione critica”. 

L’attenzione alla descrizione dei metodi e alla condivisione dei dati grezzi è stata via via rimossa dalle pubblicazioni scientifiche perché ne avrebbero frenato il proliferarsi, divenuto negli ultimi decenni essenziale al mercato editoriale e alla sopravvivenza stessa all’interno della comunità accademica. 

Molti risultati della ricerca psicologica degli ultimi decenni risentono anche delle limitazioni metodologiche legate all’esiguità dei campioni studiati, alla loro non rappresentatività della diversità umana, al ricorso a misure statistiche deboli, a interpretazioni sensazionalistiche, fino ai casi estremi di fabbricazione di dati, falsificazioni e frodi. 

Harriett Hall, aka SkepDoc, nel suo blog ha coniato l’espressione "scienza della fatina dei denti" per indicare quegli studi condotti su un fenomeno prima di stabilire che il fenomeno esista. Il riferimento è all’insieme di ricerche mirate a confermare conclusioni inverosimili ma che riscuotono ampio credito dentro e fuori la comunità scientifica. I praticanti della scienza della fatina dei denti trovano sempre dati coerenti con le loro ipotesi. 

Puoi misurare quanti soldi lascia la fatina dei denti sotto il cuscino, se lascia più soldi per il primo o l'ultimo dente, se il guadagno è maggiore se lasci il dente in una busta di plastica rispetto a quando lo avvolgi in un Kleenex. È possibile ottenere tutti i tipi di dati validi, riproducibili e statisticamente significativi. Sì, hai imparato qualcosa. Ma non hai imparato quello che pensi di aver imparato, perché non ti sei preso la briga di stabilire se la Fatina dei Denti esista davvero.

Un esempio è dato dalla ricerca sulla dipendenza da videogiochi: prima che il disturbo esista e sia definito secondo criteri clinici specifici e condivisi che ne dimostrino la coerenza interna, non solo sono state già individuate le sue conseguenze devastanti (ma solo su adolescenti, non in chi videogioca da trent’anni o più), sono state già aperte cliniche dedicate ed è stato innescato un panico mediatico che ha favorito la continuazione di una scienza delle fiabe e giustificato proposte politiche restrittive. Un altro esempio è dato dalle pubblicazioni sul digital detox: prima ancora che siano dimostrati gli effetti negativi dell’uso dei dispositivi (non stanno emergendo dagli studi più solidi effettuati) già si paventano cali di attenzione (quantificandoli in secondi!) e prolifera così la scienza della fatina, accompagnata da ondate mediatiche che scelgono per protagonisti ‘esperti’ di dubbia moralità e ampio fanclub. La lista di esempi potrebbe continuare a lungo. 

Lewis e Wai si pongono la questione di cosa si debba comunicare delle scienze psicologiche “se non siamo in grado di riprodurre in modo coerente gran parte dei nostri risultati, e non è chiaro fino a che punto tali risultati si generalizzino al di là di gruppi ristretti di popolazione”. Una possibile risposta è che la comunicazione responsabile dovrebbe includere sia i risultati attuali e le interpretazioni più affidabili sia i limiti e le cautele del momento. 

Facendo riferimento al libro di Hovland, Janis e Kelley del 1953, Communication and persuasion: Psychological studies of opinion change, i due autori rispondono a quattro domande nel tentativo di delineare i criteri di una comunicazione responsabile. 

 

Chi dovrebbe comunicare? 

Lewis e Wai richiamando quanto scritto da Hovland, Janis e Kelley sul fatto che credibilità e affidabilità siano due qualità importanti che determinano se un divulgatore scientifico sarà efficace nel persuadere il pubblico a prestare attenzione e ad agire in base alle informazioni che gli vengono fornite si domandano: “cosa fa di uno psicologo un divulgatore credibile?” 

Dalle ricerche analizzate, l’eminenza o la fama non rappresentano un predittore di credibilità e questo è messo in relazione con il fatto che il prestigio in psicologia (ma si può estendere alle scienze biomediche) si ottiene elaborando narrazioni attorno a un progetto di ricerca e ricorrendo a strategie per ottimizzare gli indicatori bibliometrici delle pubblicazioni scientifiche. 

Inoltre, sia per l’eminente che per l’emergente, il dominio di conoscenze è specifico e né il titolo di dottorato né il ruolo accademico danno il dono dell’onniscienza. I due autori aggiungono: “la nostra formazione può darci le competenze per essere in grado di raccogliere uno o due articoli dalle riviste scientifiche e imparare rapidamente alcune cose su una nuova area o un nuovo campo (ad esempio, la salute pubblica, un'area a cui molti psicologi sembrano ora essere interessati a causa della COVID-19)” ma è necessario essere consapevoli della "bolla del principiante", per cui la fiducia nella nostra conoscenza cresce molto più velocemente della nostra effettiva conoscenza. Soprattutto, occorre ricordare che l'eminenza e la fama possono generare un livello di sicurezza eccessiva che porta a voler esprimersi pubblicamente e in modo autorevole su una serie di questioni ma non è detto che “i nostri sentimenti di superiorità siano giustificati da una conoscenza superiore”. Lewis e Wai suggeriscono che “a volte la cosa migliore che possiamo fare dal punto di vista della comunicazione scientifica sia seguire il consiglio di Lamar (2017) [il riferimento è alla canzone Humble del rapper Kendrick Lamar]: Sii umile, siediti e fai spazio e promuovi la voce di coloro la cui esperienza ha più attinenza con l'argomento in questione rispetto alla tua. E sii più apertamente disposto a dire a studenti, colleghi, media e praticanti: "Non lo so"”. 

Se vi è riluttanza individuale agli esercizi di umiltà, si può sempre impegnarsi ad affinare le percezioni di sé, in molti casi aggiustandole preventivamente per difetto. L’addestramento all’autopercezione affidabile del proprio sapere dovrebbe venire dal percorso di alta formazione accademica. 

Una indicazione generale fornita dagli autori è quella di non fare affidamento soltanto su pochi nomi famosi che vengono interrogati su tutto: ci sono tante psicologhe e psicologi con le competenze più rilevanti su un particolare argomento o che lavorano attivamente nelle loro comunità e che hanno gli strumenti necessari a spiegare determinati fenomeni senza causare danni o confusione. 

Tuttavia, come hanno dimostrato le battaglie mediatiche di questi due ultimi anni, le differenze di potere, di status e di interessi anche economici in gioco sono fattori in grado di inquinare e di manipolare l’indirizzo della comunicazione scientifica. 

 

Cosa dobbiamo comunicare? 

Il contenuto della comunicazione dei singoli ha ricadute collettive. Gli effetti negativi di una comunicazione sensazionalistica nei settori della psicologia dell’educazione e della psicologia dei media digitali hanno lasciato tracce in alcune metodologie educative e nelle preoccupazioni dell’intera comunità. Lewis e Wai ammettono che la psicologia “non è l'unico campo in cui ciò che affermano i singoli scienziati può avere effetti a cascata sul discorso sociale. Nel campo della salute, abbiamo visto che, sebbene la comunità scientifica abbia da tempo un consenso sui benefici delle vaccinazioni per il trattamento e persino l'eradicazione di una varietà di malattie”, a fomentare “il moderno movimento anti-vaccinazione è stata una pubblicazione che dava credito all'affermazione, successivamente smentita, di una connessione tra il vaccino MMR e lo sviluppo dell'autismo”. In questi tempi di pandemia possiamo annoverare una lunga campagna mediatica che ha diffuso panico sui rischi della vaccinazione anti-COVID19, successivamente strumentalizzato, fino a che è servito, da partiti politici di destra. Un ulteriore esempio fornito dai due autori riguarda la comunicazione sulla crisi climatica: “i ricercatori hanno scoperto che i dubbi espressi da alcuni scienziati sull'esistenza del cambiamento climatico hanno portato la maggior parte degli americani, comprese le persone più preoccupate, a sottostimare il livello effettivo (97%) del consenso scientifico”. 

Nel fare divulgazione responsabile non ci si può permettere di trascurare le implicazioni collettive, dando peso solo a quelle individualistiche. 

Neppure vale incolpare i giornalisti di avere travisato o amplificato i risultati perché, come hanno dimostrato Sumner e collaboratori (2014), le esagerazioni delle scoperte scientifiche il più delle volte partono dai comunicati stampa universitari che sono stati approvati dagli stessi scienziati. 

Per Lewis e Wai, una comunicazione scientifica responsabile dovrebbe far conoscere al pubblico i fatti per come si comprendono attualmente e il modo in cui ci si è arrivati, intendendo il processo di generazione della conoscenza utilizzato. 

“Quando condividiamo ciò che sappiamo, dovremmo essere chiari sul nostro livello di fiducia nei risultati e sul motivo per cui abbiamo o non abbiamo fiducia” aggiungono nell’articolo e i livelli di fiducia che intendono riguardano la validità della misurazione e dei metodi alla base degli studi, la rilevanza dei contesti e delle popolazioni studiate, la convergenza tra gli studi e la loro riproducibilità. Fare affidamento, invece, sul fatto che uno studio sia stato pubblicato su una rivista di prestigio è insufficiente e può essere fuorviante. 

Tali livelli di fiducia dovrebbero essere esplorati individualmente o potrebbero essere esplorati dai giornalisti quando chiedono un’opinione specialistica su un determinato argomento, in modo da mettere i contenuti di quella comunicazione in una prospettiva più ampia e rispecchiare lo stato attuale delle conoscenze in quell'area di ricerca.

 

Comunicare a chi? 

Rispetto al tipo di pubblico a cui è diretta la comunicazione scientifica, Lewis e Wai sottolineano che ”le esperienze vissute dalle persone, così come le culture e le identità, forniscono lenti attraverso le quali vedono e danno un senso al mondo che li circonda” e determinano verso quali messaggi sarà orientata l’attenzione. Tali messaggi potranno essere più o meno conformi alle loro identità e opinioni. Il grado di istruzione e alfabetizzazione non sono gli unici fattori primari che spiegano le differenze nella selezione e nella ricezione dei messaggi, in quanto “coloro che hanno livelli elevati di istruzione e alfabetizzazione scientifica hanno le opinioni più polarizzate sugli argomenti scientifici” chiariscono Lewis e Wai. 

Occorre, quindi, differenziare la comunicazione, nei diversi linguaggi possibili e anche per un pubblico che può avere opinioni molto diverse derivanti da una propria storia o cultura. 

 

Comunicare con quale effetto? 

Disseminare le conoscenze sulla scienza psicologica è essenziale sia per presentare con maggiore rigore quei fenomeni che sono stati trasfigurati dal senso comune sia per l’impatto che può avere sulla società. Ad esempio, le conoscenze di psicologia sociale avrebbero potuto avere un impatto determinante sulla gestione della pandemia e sulla salute pubblica se solo fossero state chiamate in causa nei dibattiti e al momento delle decisioni politiche. 

Con i social media le opportunità di comunicazione diretta con il pubblico si sono ampliate e questo spinge a tenere in conto effetti che possono essere imprevedibili. La cautela nelle modalità e negli argomenti di divulgazione è essenziale, a meno che non si voglia diventare, come scrivono Lewis e Wai “il tipo di "intellettuali pubblici" che si limitano a esporre in modo irresponsabile argomenti di cui potrebbero non essere qualificati a parlare”. 

La formazione a comunicare i risultati delle proprie ricerche è attualmente troppo trascurata nel percorso accademico, con i risultati che possiamo vedere ogni giorno. 

Secondo i due autori “il processo di coinvolgimento nella comunicazione scientifica nei modi che abbiamo descritto ha non solo il vantaggio di condividere le nostre conoscenze con il mondo più ampio, ma anche il potenziale per migliorare la nostra scienza”. 


Una comunicazione cauta, trasparente e responsabile oltre a permettere di contrastare favole e esagerazioni - pur con mezzi più modesti e meno seduttivi - accresce la consapevolezza sui preconcetti e sulle distorsioni che ciascuno attiva automaticamente nella scelta e nella lettura delle notizie scientifiche, assolvendo al suo ruolo sociale.

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