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domenica 15 novembre 2015

B, la prima bambina afroamericana con un'intelligenza eccezionale.


Nel 1935 il Professor Paul A. Witty e il suo allievo Martin D. Jenkins pubblicarono il caso di B, una bambina di intelligenza superiore, nera (1).

Jenkins stava conducendo una ricerca sistematica (2) in sette scuole pubbliche di Chicago con l'obiettivo di determinare l'incidenza di un livello intellettivo superiore nei bambini neri. Fino ad allora i bambini afroamericani super-intelligenti erano stati quasi del tutto ignorati e poco si conosceva delle loro caratteristiche.
La procedura di reclutamento prevedeva che gli insegnanti identificassero per la propria classe: 1) il bambino più intelligente; 2) il migliore alunno; 3) i bambini con un'età inferiore rispetto all'anno di scuola frequentato.
Furono così selezionati 539 bambini, corrispondenti al 6.5% della popolazione scolastica considerata (8145 alunni). Una prima batteria di test psicometrici fu somministrata a 512 (6.3%) dei bambini selezionati e nella fase successiva furono individuati, attraverso la batteria Stanford-Binet, 103 bambini con un QI uguale o superiore a 120 (45, 1.23%), di cui 29 con QI uguale o superiore a 130 e 29 con QI uguale o superiore a 140. La media di QI nei 31 maschi era di 134.6 (ds=10.8) e nelle 72 femmine di 133.9 (ds=13.0).

Il QI in assoluto più alto fu ottenuto da B.

La curva a campana della distribuzione dei valori 
di QI nella popolazione generale (media=100)


Nell'articolo di Jenkins si legge l'attenzione a dimostrare l'autentica genealogia dei bambini: negli studi che consideravano etnie diverse, i ricercatori erano tenuti a provare che non ci fosse alcun antenato bianco nel soggetto in esame, perché questo ne avrebbe spiegato – per motivi del tutto arbitrari - le eventuali abilità superiori.

B fu scelta dalla sua insegnante come migliore alunna mentre un'altra bambina di 4 anni più grande e con un QI che si rivelò inferiore a 100 fu scelta come la più intelligente.

Dopo la somministrazione della batteria Stanford-Binet il QI di B risultò essere di 200, il più alto. Se si considera 100 come valore medio del QI, statisticamente si tratta di una probabilità molto rara.

In un editoriale del 1935 del Journal of Negro Education (3), a commento del caso di B, venivano delineate le implicazioni di un tale straordinario caso.
Innanzi tutto, B dimostrava che il gruppo etnico di appartenenza (allora si parlava ancora di razza con intento discriminatorio) non determinava il limite superiore del QI e smontava le conclusioni di diversi psicologi secondo i quali i neri fossero meno intelligenti dei bianchi.

In secondo luogo, smentiva un ipotizzato effetto negativo della scuola pubblica sul QI. Difatti, B fu scoperta in una delle scuole di Chicago che frequentavano i bambini neri e in un contesto nient'affatto culturalmente povero.
In terzo luogo, evidenziava come fossero i pochissimi studi condotti fino ad allora sui bambini neri a influenzare i pregiudizi pervasivi e, in generale, la scarsa attenzione data ai bambini neri con abilità superiori, rispetto a quella con cui venivano osservati e seguiti nel tempo i bambini bianchi.
L'autore dell'editoriale, constatando che in quegli anni c'erano solo 25.000 studenti neri nei gradi di istruzione superiore degli Stati Uniti, invitava ad investire più ampiamente e sistematicamente nei cervelli superiori afroamericani, per assicurare un futuro migliore del passato.

Al momento dell'esame condotto nel 1934, B aveva 9 anni e 4 mesi ed era in quinta primaria, dopo aver ricevuto non più di una doppia promozione: avanzando di un ulteriore grado sua madre temeva di staccarla troppo dal gruppo di coetanei.

B era nata il 18 novembre del 1924, era figlia unica. Alla nascita la madre aveva 27 anni e il padre aveva 31 anni.

B fece i primi passi a 8 mesi per inseguire un cane ma raggiunse stabilmente la deambulazione autonoma a 12 mesi.
Nel linguaggio era stata più precoce: a 16 mesi pronunciava frasi semplici e mostrava un ampio vocabolario; a 2 anni ripeteva le filastrocche.
Imparò precocemente anche l'alfabeto e a 4 anni iniziò a leggere.
Le sue curve di crescita in altezza e peso erano nella norma ed era in ottima salute.

All'epoca dell'esame la sua definizione di mosaico era: un certo numero di pietre dai colori vivaci – no, di tessere - messe insieme per formare un disegno. La definizione per tesoreria: il posto dove un gruppo collaborativo di persone mantiene il denaro. E, per forfait: una rinuncia, non un sacrificio. Così, B, all'età di 9, era in grado di distinguere le sfumature nella responsabilità di una scelta.

Il suo comportamento non presentava aspetti critici: B era regolare nelle abitudini, aveva un normale ritmo sonno-veglia, non soffriva di paure specifiche, si adattava rapidamente ai diversi contesti di vita e si integrava con successo nel gruppo di coetanei.

La madre di B era un'insegnante; il padre era un ingegnere elettrico laureatosi all'Università Cornell.
I nonni, in linea materna e paterna avevano ricoperto ruoli di responsabilità in varie aziende.

La madre sottolineava la pura discendenza afroamericana di B: non si rintracciava alcun antenato bianco nella linea materna o materna.

B non giocava con le bambole, non mostrava particolare abilità o interesse per la musica. Preferiva la scienza e, in particolare, la chimica.

Per Jenkins e per Witty, B era la prova che si potessero osservare doti straordinarie anche nei bambini che avevano affrontato le conseguenze e le sfide del razzismo e le cui esperienze di vita erano sostanzialmente diverse dalle loro controparti bianche.
Il loro studio fu fondamentale nel dimostrare che tra i bambini neri e bianchi di intelligenza superiore non c'erano differenze di incidenza e caratteristiche.

La posizione dei due autori tra gli opposti estremismi rappresentati dagli innatisti (l'itelligenza è determinata dai geni) e dai comportamentisti (l'intelligenza è determinata dall'addestramento) era moderata: le doti dei bambini così ampiamente osservati potevano essere ricondotte a un'eredità biologica fortunata, con in più opportunità abbastanza buone di sviluppo cognitivo.
While both the extreme hereditarian and the environmentalist can find in these data ample support for dogmatizing concerning the importance of heredity or of environment, the writers, after months of study of this child and the social setting, believe that the provenance of this child’s rare ability can be traced to a fortunate biological inheritance plus a fairly good opportunity for development.

Infine, Witty introdusse un concetto più generale relativo al talento individuale: nella sua pionieristica visione, l'intelligenza ne era solo un aspetto e si dovevano considerare anche le abilità e le opportunità.

Un QI elevato non significa necessariamente creatività produttiva o successo.
There must be, in addition to ability, the desire to achieve and a favorable environment. High I.Q. does not necessarily mean high creative productivity.

Seguendo le sue conclusioni, si può parlare di un bambino prodigio solo nel caso in cui la sua prestazione in una determinata e particolare attività sia costantemente e ripetutamente straordinaria
[…] to consider any child as ‘gifted’ whose performance, in a valuable line of human activity is consistently or repeatedly remarkable.

Era il caso di B, che nacque tra tre giorni, 91 anni fa.
Non si sa se poi abbia realizzato la sua aspirazione a diventare un chimico.

Ha sicuramente contribuito a distruggere molti pregiudizi razziali e a migliorare i percorsi educativi per i bambini con doti intellettive superiori.

Resta valida l'importanza di individuare precocemente (in II o III primaria) il livello di intelligenza - indipendentemente dall'etnia, dal genere, dallo status economico -, per fornire nei casi di QI superiore, così come avviene per i casi di QI inferiore alla media, le più adeguate strategie e traiettorie di apprendimento.




1) Witty PA, Jenkins MD. (1935). The case of ‘B’—a gifted Negro girl. Journal of Social Psychology, 6, 117–124

2) Jenkins MD. (1936). A socio-psychological study of Negro children of superior intelligence. Journal of Negro Education, 5(2), 175–190.

3) Editorial Comment: Investing in Negro Brains (1935). Journal of Negro Education, 4(2), 153–155.


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