In
Neuromania (1) pubblicato nel 2009, Paolo Legrenzi e Carlo
Umiltà descrivevano i metodi e le tecniche delle neuroscienze fin
dagli studi di Mosso che fu tra i primi a cercare di misurare il
flusso sanguigno cerebrale, richiamando l'attenzione sui rischi di
una “progressiva naturalizzazione delle scienze umane”.
Inoltre,
mettevano in evidenza come l'aggiunta di un
prefisso può avere presentato come nuove conoscenze già acquisite,
attraverso la sostituzione terminologica di “mente” con
“cervello”, ma di fatto nulla ha apportato al sapere scientifico
attuale.
Il
progresso nelle tecniche di neuroimmagine e il successo della
diffusione delle “immagini colorate” della risonanza magnetica
funzionale – dovuto al fatto che “al pari di quello degli altri
primati, il nostro cervello è visivo, nel senso che una gran parte
di esso processa informazione visiva” - ha portato al proliferare
di discipline “neuro+” (2): neuroetica, neuroestetica,
neuropolitica,...
Come scrisse Ricardo Basso Garcia nella recensione apparsa su Science nel 2012 (3), dopo la traduzione inglese pubblicata nel 2011 (4),
“nella lettura degli autori, il cervello è diventato il sistema di
riferimento per le spiegazioni della mente e del comportamento umano,
lasciando sullo sfondo altri approcci che includano gli aspetti
sociali e culturali della mente umana.
La
questione importante non riguarda la prospettiva che dovrebbe
prevalere, ma le decisioni relative alla vita umana, che dipendono da
come la società definisce il rapporto mente-corpo. Se appare in
primo piano un solo aspetto, ci possono essere differenze drastiche
nel trattare argomenti spinosi come l'aborto e l'eutanasia. […] La
riflessione su tali questioni da un punto di vista strettamente
biologico può essere fuorviante, dopo tutto, all'interno del nostro
cranio vi è più di un semplice cervello”.
Nel
nuovo “libretto” Perché abbiamo
bisogno dell'anima, Legrenzi e Umiltà
continuano il discorso “da allora il quadro culturale non è
cambiato”. Tornano sui rischi della “progressiva naturalizzazione
delle scienze umane”, si interrogano su “Come mai non ci siamo
sbarazzati del dualismo [...]? Il dualismo ingenuo aiuta o frena
scelte come la riproduzione assistita, l'aborto, l'eutanasia?”,
chiariscono la differenza tra un riduzionismo di
principio e un riduzionismo operativo.
Ne
ho parlato con il Prof Carlo Umiltà, con il quale mi laureai a
Padova nel 1996.
Come
sempre disponibile, ha risposto dopo poche ore al mio messaggio di
posta elettronica, affrontando con generosità ciascuna delle
questioni che gli ho posto.
Riporto il testo per intero comprese le R
alle sue risposte.
Il
libro si conclude con una domanda: riuscirà mai il riduzionismo a
spazzare via il dualismo dalla psicologia quotidiana?
R:
Penso non ci riuscirà, almeno nel prevedibile futuro. L'evoluzione
ci ha imposto la insopprimibile tendenza ad attribuire una mente a
tutti gli oggetti (animati o meno) con i quali interagiamo.
E se quest'obiettivo fosse raggiunto dal riduzionismo forte non sarebbe altrettanto pericoloso?
R:
Se il riduzionismo forte (mente = cervello) prevalesse, non credo ci
sarebbero grossi cambiamenti. Cambiamenti radicali ci sarebbero,
invece, se il riduzionismo (debole o forte) diventasse operativo. Se
ciò accadesse, la psicologia sarebbe sostituita dalle neuroscienze
cognitive.
Non
credo, però, sia ancora il caso di preoccuparsene (almeno per i
prossimi 100 anni e più).
Penso ad esempio alle discusse sentenze di Tribunale che attenuano le pene, stabilendo un nesso causale tra cervello e crimine ("Non sono stato io, è stato il mio cervello") o nella clinica all'ipotesi di fare diagnosi funzionale su una lastra di risonanza.
R:
Il dire "non sono stato io, è stato il mio cervello"
diventa ininfluente se si pensa, come si deve pensare, che l"io"
si realizzi attraverso l'attività di parti del cervello (o,
addirittura, l'"io" coincida con parti del cervello).
Questa possibilità è stata recentemente scongiurata per l'autismo - poi ci tornerò - da un ampio studio che non conferma la presenza di anomalie strutturali alla risonanza rispetto ai controlli, anche se non esclude lesioni microstrutturali: un dato importante che argina le bizzarrie localizzatorie pubblicate negli ultimi anni.
R:
Concordo che le localizzazioni prevalenti sono vere e proprie
bizzarrie. Le localizzazioni sensate devono essere in termini di reti
complesse di strutture neurali. Così anche le patologie vanno
pensate in termini di malfunzionamento (a livello macrostrutturale
e/o microstrutturale) di reti
neurali complesse.
neurali complesse.
E ancora, cosa pensa del 'ritrovamento' della coscienza, attraverso fMRI, nei pazienti in stato vegetativo?
R:
Io distinguo fra "condizioni per la coscienza", che si
realizzano in strutture sottocorticali" e "contenuti della
coscienza" che dipendono soprattutto da strutture corticali. Se
le condizioni per la coscienza sono presenti, non ho difficoltà a
pensare che ci possano essere anche dei contenuti, se parti della
corteccia sono preservate. Sulla coscienza nello stato vegetativo ha
scritto cose molto intelligenti Giovanni Berlucchi...
Sono stata poi sorpresa dalla visione dello smartphone in chiave Winnicottiana! Un modo di considerare l'individuo come un eterno bambino, un organismo che cresce. E se l'euforia attuale fosse quella dei neanderthaliani con i loro nuovi utensili? In tal caso, la differenza la farebbe la sofisticazione tecnologica. Come mi ha detto un ragazzino durante una valutazione "i geroglifici? Dei simboli, come gli sms di ora"!
R:
Per questi aspetti, le suggerirei di contattare Paolo Legrenzi...
A pag 56 poi ho avuto un sussulto. I neuroni specchio sono stati una grande scoperta per le neuroscienze ma limitatamente alle scimmie. Proprio alcuni giorni fa Rizzolatti ha parlato di prova "still weak" sull'uomo. L'intervista da parte di un giornale olandese era motivata dal recente libro di Gregory Hickok, The Myth of Mirror neurons. Rizzolatti lo ha definito un linguista che si occupa di divulgazione scientifica, attirandosi le critiche di qualcuno che lo ha a sua volta sproporzionatamente appellato come il 'Beppe Grillo delle neurosicenze'. Spero si fermino tutti, per non avvilire la ricerca scientifica, che deve proseguire usando nella traslazione clinica lo stesso rigore metodologico del lab.
Professor Emeritus and Senior Scholar of Neuropsychology, University of Padua |
Rispetto all'autismo, i risultati sono deboli e sono più forti le controprove finora. La mia preoccupazione è che si creino false aspettative terapeutiche nelle famiglie. Si parla anche di terapie riabilitative basate sui neuroni specchio... Insomma, ci sono gli ingredienti per farne un mito?
R: Ero convinto che l'attribuire l'autismo a un malfunzionamento del sistema dei neuroni mirror avesse un senso. Dopo avere letto il libro di Hickok mi sono venuti molti e seri dubbi.
Infine, dato che non ci sono alternative "a condurre la ricerca sui processi mentali con i paradigmi della psicologia sperimentale", si può bilanciare la diffusione delle immagini di cervelli colorati con la divulgazione di tali paradigmi, a beneficio del pubblico? Questo richiederebbe uno sforzo anche da parte degli psicologi.
R:
Certo, sarebbe necessario farlo. Purtroppo quelle immagini colorate
(e, in larga misura, del tutto fantasiose) sono difficili da
contrastare. Il primo passo, molto difficile, sarebbe convincere i
"laici" che quelle NON sono affatto fotografie del cervello
al lavoro e che come il cervello lavora lo si capisce molto meglio
dagli esperimenti di psicologia.
Buone
letture e discussioni!
1. Legrenzi P., Umiltà C. Neuro-mania: Il cervello non spiega chi siamo, Società editrice Il Mulino, 2009.
2.
Legrenzi P., Umiltà C. Perché abbiamo bisogno dell'anima.
Società editrice il Mulino, 2014.
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