lunedì 15 marzo 2021

I videogiochi e il loro impatto: i nuovi sviluppi della ricerca oltre gli allarmismi

con Viola Nicolucci 


Le devianze comportamentali e gli atti autolesivi nei più giovani sono ancora sistematicamente attribuiti da molti media alle nuove tecnologie siano essi smartphone, social o videogiochi. Eppure, a convalidare questo nesso, non si rintracciano né prove fattuali nei singoli episodi coperti da una cronaca spesso sensazionalistica né solide evidenze scientifiche.

Cosa diremmo se oggi sentissimo proclamare che “l’aumento della violenza giovanile va di pari passo con l’aumento della distribuzione dei fumetti?”. Non esiteremmo a urlare al ridicolo, dal momento che i fumetti fanno ormai parte della nostra cultura, sono una diffusa modalità di acquisizione di conoscenze, una forma d’arte e di comunicazione e su di essi e sui loro personaggi sono state costruite industrie editoriali e cinematografiche.

Tuttavia, neppure per i fumetti la vita è stata facile al loro esordio, proprio come accade per i videogiochi e altri prodotti digitali. Tra gli anni 1940 e 1950 ci furono vere e proprie crociate contro i fumetti da parte di educatori, religiosi, intellettuali, clinici e ricercatori contro i rischi di violenza, perversione e dipendenza di passaggio verso altre droghe.

“Tutti i bambini tossicodipendenti e tutti i bambini coinvolti nel traffico di stupefacenti, con i quali abbiamo avuto contatti, erano lettori incalliti di fumetti"

Le due frasi virgolettate furono scritte dallo psichiatra Friedric Wertham, che fu tra i più agguerriti anti-fumetti ed era ossessionato dalle perversioni di Superman, Batman e Wonder Woman. Con il simposio sulla psicopatologia dei fumetti nel 1948 di cui fu promotore e il libro "La seduzione dell’innocente" del 1954, condizionò il dibattito pubblico e contribuì a promuovere legislazioni restrittive sulla vendita dei fumetti e dichiarazioni allarmistiche da parte di organizzazioni di genitori, insegnanti e di tutela dei minorenni.

Appare paradossale che oggi si reclamino le stesse restrizioni per i telefonini, facendo proprio il confronto con i fumetti ritenuti meno dannosi.

Ci si può chiedere su quali dati basò le proprie tesi Wertham che era un clinico, uno psichiatra che seguiva centinaia di persone di ogni età presso la sua clinica, assieme ai suoi collaboratori.

Un’analisi dei suoi documenti, condotta dalla storica dei fumetti Carol Tilley nel 2012, ha rivelato in modo dettagliato che il libro di Wertham si basa su distorsioni, falsificazioni e alterazioni di informazioni cliniche e di dati che non erano passate inosservate ad alcuni dei suoi colleghi e colleghe dell’epoca. Wertham eluse le perplessità e le richieste di chiarimenti, trincerandosi nella riservatezza dei documenti clinici.

Per Tilley, Wertham cercò di spostare “la responsabilità per i disturbi comportamentali e altre patologie dei giovani dal più ampio contesto sociale, culturale e fisico della vita di questi bambini al passatempo ricreativo della lettura di fumetti”.

Quello che il caso Wertham ci insegna è, dunque, che dietro gli allarmi ingiustificati per l’impatto sulle menti giovanili dei nuovi prodotti di ogni epoca si celano, assieme alle false prove frettolosamente confezionate, i tentativi di spostare l’attenzione dalla società all’individuo per interpretare i fenomeni psicologici e sociali complessi propri di un’epoca.

Quali che siano le motivazioni, dal prestigio personale ai conflitti di interesse, le cattive pratiche per la dimostrazione degli effetti negativi delle nuove tecnologie continuano a perpetrarsi.

Le cattive pratiche nella ricerca sui videogiochi

Alcuni settori di ricerca, come quelli interessati al rapporto tra videogiochi e violenza, sono risultati particolarmente vulnerabili alla manipolazione di dati e informazioni. Sono ormai noti i gruppi che si sono maggiormente accaniti nell’associare i videogiochi a comportamenti violenti o autolesivi.

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