Ancora
in questo caldo autunno capita di trovare notizie in cui all’uso dei telefonini
e delle nuove tecnologie da parte dei più giovani sono associate parole quali
“allarme”, “malattie”, “schiavitù”, “disintossicazione”, “divieto”.
Si
tratta ormai di vera e propria disinformazione che ha una rapida presa sul
pubblico di famiglie, insegnanti e professionisti e ha per conseguenze
l’arbitrarietà delle azioni correttive attuate, la vendita di prodotti e
pacchetti che promettono cure e il deterioramento della comunicazione tra
generazioni.
Il
meccanismo, nella sua ripetitività, denota il mancato aggiornamento scientifico
degli autori dei proclami, la pubblicizzazione di soluzioni ingannevoli con più
o meno diretti conflitti d’interesse non dichiarati e la manifestazione
concreta del divario digitale intergenerazionale.
Se di
disinformazione si tratta, non sorprende che manchino totalmente di copertura
mediatica i risultati degli studi più recenti che dimostrano gli effetti
positivi delle nuove tecnologie e soprattutto affrontano l’argomento con un
metodo rigoroso che rifiuta le semplificazioni e ne analizza la complessità.
Ad
esempio, solo un
articolo ha parlato dello studio che “smentisce
la teoria che stare sui display digitali crei problemi di salute mentale ai
giovani”.
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