lunedì 27 gennaio 2020

Gli effetti delle tecnologie digitali sugli adolescenti: niente panico e più ricerca



I media sono di fondamentale importanza in settori quali il benessere, la democrazia, la povertà, la violenza, l’istruzione, le azioni per il clima e altro ancora. Tuttavia, nonostante le promesse dei big data, nessuno sa davvero cosa le persone effettivamente vedano e facciano sui loro schermi in un mondo digitale sempre più complesso. Di conseguenza, la ricerca e le politiche sono spesso incomplete, irrilevanti o sbagliate.


Inizia così la descrizione dello Human Screenome Project, uno studio collaborativo guidato da Byron Reeves (Università di Stanford), Nilam Ram (Università dello Stato della Pennsylvania) e Thomas Robinson (Università di Stanford) che si propone di acquisire informazioni sul tipo di uso che viene fatto degli schermi digitali, registrandone direttamente le attività dai dispositivi.

Si intende superare in questo modo il limite della maggior parte degli studi condotti fino ad oggi, che si sono basati solo sui questionari compilati dai genitori o da ragazze e ragazzi coinvolti nelle ricerche che rispondevano a domande sul tempo dedicato ai dispositivi e sulle applicazioni usate. Le risposte potevano riferirsi anche agli anni precedenti, aggiungendo un ulteriore limite alla soggettività delle risposte.
Tuttavia, le risposte ai questionari non permettono di distinguere se bambini e ragazzi tendono a consumare (ad esempio, cercando le notizie, guardando i video, scorrendo gli aggiornamenti sulle reti sociali, ecc.) o produrre contenuti (ad es. usando la messaggistica, aggiornando i propri profili, caricando video, ecc.). Inoltre, l’uso dei dispositivi è complesso e può alternare in una stessa giornata periodi di consumo ad altri di produzione di contenuti.

Gli autori del progetto Screenome hanno creato un software che, all’accensione di un dispositivo, registra, crittografa e trasmette schermate in modo automatico e discreto, ogni cinque secondi, per catalogare tutto quello che le persone fanno sui loro schermi. Finora gli autori hanno raccolto 30 milioni di schermate – gli schermomi (screenoms) – da oltre 600 persone. L’insieme di tutti gli schermomi permette di ricostruire il profilo di una persona attraverso le sue attività e tutte queste informazioni (ricerca di notizie, uso delle reti sociali, controllo del conto in banca, messaggistica, ecc.) passeranno sotto la lente dei ricercatori.

Il progetto è alle fasi iniziali e certamente pone delle questioni su come saranno usati tutti questi dati e su come saranno analizzati. Indipendentemente dal consenso informato sottoscritto dai partecipanti, la trasparenza in tutte le fasi del progetto, la dichiarazione sull’uso che sarà fatto dei dati dopo la fase sperimentale e il rigore nella definizione delle ipotesi di ricerca, nell’applicazione dei metodi di analisi statistica e nell’interpretazione dei risultati saranno essenziali alla riuscita del progetto stesso.

L’esigenza di sviluppare progetti che permettano di ottenere informazioni oggettive sui contenuti e non più sul tempo di esposizione ai dispositivi digitali segna il passaggio a una nuova era della ricerca scientifica in questo ambito e il definitivo superamento degli studi precedenti che sono stati caratterizzati da metodi deboli e dalla tendenza a vedere pubblicati solo i risultati che evocavano danni psicologici, psichiatrici e neurologici pur non confortati dalla solidità dei dati. Si tratta per lo più di studi correlazionali che mostrano come le variabili studiate siano presenti insieme ma non se una causi l’altra.

La tentazione di condurre studi di questo tipo prosegue, in realtà, perché risultano di facile realizzazione, richiedendo la compilazione di questionari ad esempio agli studenti universitari o a gruppi selezionati di adolescenti e famiglie. Arrivare a conclusioni attese è altrettanto facile ma non sempre conforme alla complessità dei dati e al loro approfondimento.

Allo stesso modo, l’eco delle credenze che sono state alimentate da queste interpretazioni parziali o basate su superficialità statistiche continua a propagarsi di settimana in settimana con gli interventi pubblici di alcuni specialisti, ricercatori o altri opinionisti. Non bisogna dimenticare che alcuni esperti hanno costruito una carriera sul messaggio che le nuove tecnologie provochino danni di massa che richiedono cure specifiche e quindi modificare le proprie tesi in base alle prove può costituire un rischio professionale.

Tuttavia, la ricerca scientifica è chiara: non ci sono studi che dimostrano una relazione di causa-effetto tra uso dei dispositivi e ritardi dello sviluppo cognitivo, disturbi mentali o danni cerebrali. Continuare a cavalcare l’onda drammatica oltre ad allontanare dalla scienza vuol dire assumersi la responsabilità di creare confusione e incertezza, preparando il terreno a rimedi impropri se non addirittura dannosi.


Nelle ultime due settimane sono state pubblicate due ulteriori importanti revisioni sugli effetti dell’uso delle nuove tecnologie negli adolescenti dalle principali e più rigorose ricercatrici in questo settore...

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