I media sono di fondamentale importanza in settori quali il benessere, la democrazia, la povertà, la violenza, l’istruzione, le azioni per il clima e altro ancora. Tuttavia, nonostante le promesse dei big data, nessuno sa davvero cosa le persone effettivamente vedano e facciano sui loro schermi in un mondo digitale sempre più complesso. Di conseguenza, la ricerca e le politiche sono spesso incomplete, irrilevanti o sbagliate.
Inizia così la descrizione
dello Human Screenome Project, uno studio collaborativo guidato da Byron Reeves
(Università di Stanford), Nilam Ram (Università dello Stato della Pennsylvania)
e Thomas Robinson (Università di Stanford) che si propone di acquisire
informazioni sul tipo di uso che viene fatto degli schermi digitali,
registrandone direttamente le attività dai dispositivi.
Si intende superare in
questo modo il limite della maggior parte degli studi condotti fino ad oggi,
che si sono basati solo sui questionari compilati dai genitori o da ragazze e
ragazzi coinvolti nelle ricerche che rispondevano a domande sul tempo dedicato
ai dispositivi e sulle applicazioni usate. Le risposte potevano riferirsi anche
agli anni precedenti, aggiungendo un ulteriore limite alla soggettività delle
risposte.
Tuttavia, le risposte ai
questionari non permettono di distinguere se bambini e ragazzi tendono a
consumare (ad esempio, cercando le notizie, guardando i video, scorrendo gli
aggiornamenti sulle reti sociali, ecc.) o produrre contenuti (ad es. usando la
messaggistica, aggiornando i propri profili, caricando video, ecc.). Inoltre,
l’uso dei dispositivi è complesso e può alternare in una stessa giornata
periodi di consumo ad altri di produzione di contenuti.
Gli autori del progetto
Screenome hanno creato un software che, all’accensione di un dispositivo,
registra, crittografa e trasmette schermate in modo automatico e discreto, ogni
cinque secondi, per catalogare tutto quello che le persone fanno sui loro
schermi. Finora gli autori hanno raccolto 30 milioni di schermate – gli
schermomi (screenoms) – da oltre 600 persone. L’insieme di tutti gli schermomi
permette di ricostruire il profilo di una persona attraverso le sue attività e
tutte queste informazioni (ricerca di notizie, uso delle reti sociali,
controllo del conto in banca, messaggistica, ecc.) passeranno sotto la lente
dei ricercatori.
Il progetto è alle fasi
iniziali e certamente pone delle questioni su come saranno usati tutti questi
dati e su come saranno analizzati. Indipendentemente dal consenso informato
sottoscritto dai partecipanti, la trasparenza in tutte le fasi del progetto, la
dichiarazione sull’uso che sarà fatto dei dati dopo la fase sperimentale e il
rigore nella definizione delle ipotesi di ricerca, nell’applicazione dei metodi
di analisi statistica e nell’interpretazione dei risultati saranno essenziali
alla riuscita del progetto stesso.
L’esigenza di sviluppare
progetti che permettano di ottenere informazioni oggettive sui contenuti e non
più sul tempo di esposizione ai dispositivi digitali segna il passaggio a una
nuova era della ricerca scientifica in questo ambito e il definitivo
superamento degli studi precedenti che sono stati caratterizzati da metodi
deboli e dalla tendenza a vedere pubblicati solo i risultati che evocavano
danni psicologici, psichiatrici e neurologici pur non confortati dalla solidità
dei dati. Si tratta per lo più di studi correlazionali che mostrano come le
variabili studiate siano presenti insieme ma non se una causi l’altra.
La tentazione di condurre
studi di questo tipo prosegue, in realtà, perché risultano di facile
realizzazione, richiedendo la compilazione di questionari ad esempio agli
studenti universitari o a gruppi selezionati di adolescenti e famiglie.
Arrivare a conclusioni attese è altrettanto facile ma non sempre conforme alla
complessità dei dati e al loro approfondimento.
Allo stesso modo, l’eco
delle credenze che sono state alimentate da queste interpretazioni parziali o
basate su superficialità statistiche continua a propagarsi di settimana in
settimana con gli interventi pubblici di alcuni specialisti, ricercatori o
altri opinionisti. Non bisogna dimenticare che alcuni esperti hanno costruito
una carriera sul messaggio che le nuove tecnologie provochino danni di massa
che richiedono cure specifiche e quindi modificare le proprie tesi in base alle
prove può costituire un rischio professionale.
Tuttavia, la ricerca
scientifica è chiara: non ci sono studi che dimostrano una relazione di
causa-effetto tra uso dei dispositivi e ritardi dello sviluppo cognitivo,
disturbi mentali o danni cerebrali. Continuare a cavalcare l’onda drammatica
oltre ad allontanare dalla scienza vuol dire assumersi la responsabilità di
creare confusione e incertezza, preparando il terreno a rimedi impropri se non
addirittura dannosi.
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cosa dice la ricerca scientifica
Nelle ultime due settimane
sono state pubblicate due ulteriori importanti revisioni sugli effetti dell’uso
delle nuove tecnologie negli adolescenti dalle principali e più rigorose
ricercatrici in questo settore...
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