venerdì 12 febbraio 2021

Il suicidio e le sue complessità. Una conversazione con lo psichiatra Diego De Leo

 


Quando una notizia di suicidio raggiunge la cronaca e viene riportata con toni sensazionalistici, spesso veicolando informazioni false e incomplete, oltre a perpetuare lo stigma verso tutte le persone coinvolte, può generare dei rischi e orientare misure improvvisate se non del tutto inadeguate.

Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un’esasperazione nella diffusione di notizie sui suicidi che hanno coinvolto bambini, fino alla pubblicazione di dati personali e alla completa identificazione dei coetanei e dei familiari, in particolare se non avevano provveduto tempestivamente alla propria protezione. Dei comportamenti suicidari, della loro complessità e della loro comunicazione ho parlato con il professore Diego De Leo, psichiatra e psicoterapeuta.

Parlare di suicidio vuol dire entrare nel mondo delle ultra-complessità quindi le semplificazioni sono sempre molto facili, spesso molto scritte ma poi generalmente portano poca comprensione perché semplificare una cosa vuol dire ottenebrarne mille altre.

Tiziana Metitieri – Professor De Leo, veniamo da settimane molto difficili nelle quali le linee guida sulla comunicazione del suicidio sono state del tutto disattese dai nostri media e in generale le modalità di comunicazione degli atti di autolesionismo sono lasciate all’aneddotica, al clamore e alla giustificazione dato il periodo emergenziale che stiamo vivendo. Secondo lei, l’attuale modalità di comunicare il suicidio può creare dei problemi?

Ne crea tanti perché è un richiamo a qualcosa che uno teme per sé e per i propri cari, per le persone significative, quindi ricorda che esiste una possibilità molto triste di anticipare il proprio exitus naturale in questo modo; è un richiamo a qualcosa che uno mette volentieri nel dimenticatoio anche per un istinto di conservazione. Già così, a livello molto profondo, è disturbante.

C’è anche un problema etico di base che riguarda la società che deve essere al corrente di quanto succede al proprio interno e quindi in questo lunghissimo dibattito di cui mi sono occupato molto nel corso della mia vita c’è sempre l’antinomia tra il tenere confidenziali le morti, soprattutto se si tratta di bambini, e invece mettere in guardia la popolazione anche da questa eventualità.

Si ha l’impressione che parlare di suicidio nei bambini sia ancora un tabù ma è un fenomeno documentato, per quanto raro.

Devo dire che abbiamo una letteratura scientifica vecchiotta su questo per vari fattori, da un lato la rarità del fenomeno nei bambini e il rallentamento nella raccolta o addirittura la mancanza di dati nella fascia da 5 a 9 anni perché questa è stata vietata a lungo in molti paesi mentre è comparsa solo di recente, dopo lunghe questioni, quella dai 10 ai 15 anni nelle nazioni più evolute. Inoltre, vista la rarità del fenomeno, c’è sempre la possibilità che pubblicare quei dati annualmente possa portare all’identificazione dei singoli casi e quindi ad aggiungere stigma alle famiglie dei sopravvissuti.

In Australia, ho vissuto in prima persona la polemica con l’istituto nazionale di statistica (Australian Bureau of Statistics), che ha accettato dopo molte mie insistenze di pubblicare dati raggruppati per anni, quindi facendo dei cluster di 5 anni per i soggetti in età tra 10 e 15 anni, evitando così il riconoscimento o camuffando il più possibile i profili. L’Australia era un paese di 20 milioni di abitanti quando si svolgeva questa diatriba e i casi di bambini suicidi si contavano sulle dita di una mano, con una certa prevalenza delle bambine e delle ragazze rispetto ai bambini e ai ragazzi. E, in effetti, questo è rimasto un trend che a livello internazionale si è mantenuto.

Le bambine o le giovani adolescenti riescono ad avere un livello di maturità che precede quello dei loro pari maschi e quindi affrontano i problemi della consapevolezza della scelta suicidaria molto prima. Su questo hanno influito anche fenomeni epocali di modificazione dei metabolismi, come per esempio l’anticipazione del menarca che nel corso del tempo ha guadagnato almeno 2 anni e quindi adesso avviene molto spesso intorno ai 10-12 anni rispetto ai 12-13 anni di una volta.

Da una sua revisione del 2015 emerge che anche i bambini possono presentare un’intenzionalità suicidaria.

L’idea che i bambini capiscano cos’è la morte, la sua irreversibilità, le sofferenze psicologiche e la sofferenza che questa comporta sui sopravvissuti, sui loro genitori, sull’ambiente circostante sono tutte questioni scarsamente esplorate. In passato, un vecchio studio canadese di Mishara (1998), fece una valutazione su un campione di bambini, collocando intorno ai 9 anni la consapevolezza di che cos’è la morte, sottintendendo con questo che prima di quell’età, in generale, la percezione del suicidio sia intesa come una sorta di game over, nel senso che finisce un’esperienza e ne comincia un’altra come nei videogiochi.

Questo studio è stato fatto 20 anni fa quando ancora la diffusione dei social non era ancora così radicata, quando la digitalizzazione non era così endemica e così acquisita.

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