sabato 3 giugno 2023

Gli effetti della chiusura delle scuole durante la pandemia: oltre la disinformazione

 

 

Gli effetti della pandemia da COVID-19 e della chiusura delle scuole sulla salute mentale di alunne/i e studenti devono essere interpretati nel lungo termine anche tenendo conto della chiusura dei servizi territoriali – che ha influito sul numero di accessi ai pronto soccorso – e della presenza dei dispositivi digitali – che, ove disponibili individualmente, hanno garantito la continuità dell’educazione e delle interazioni sociali (diversamente da altre pandemie precedenti).

I dati sono dunque complessi da analizzare ma anche da raccogliere senza basarsi su solidi disegni di ricerca che tengano conto della complessità del contesto (residenza urbana o rurale, disponibilità di servizi, composizione famigliare, livelli socioeconomici) e dei sottogruppi della popolazione pediatrica (età, scuola, accessibilità a strumenti digitali, condizione clinica precedentemente diagnosticata). 

Quello che è chiaro ormai è che il panico morale che è stato costruito strumentalmente a partire dagli anni della pandemia attorno all’impatto “devastante” della chiusura delle scuole su bambine/i e ragazze/i e sui danni “irreversibili” della DaD non ha trovato alcun appiglio nei risultati emergenti dalle ricerche scientifiche più rigorose. 

Perché ci sono state e continuano ad esserci anche molte ricerche affrettate e contaminate da distorsioni autoconfermative e debolezze metodologiche che hanno ritardato l’acquisizione di conoscenze scientifiche ma certamente sono servite ad avvalorare le pressioni politiche conservatrici più scellerate (che ad es., spingevano per l’apertura delle scuole). Ricerche fallaci che sono responsabili dell’ampia disinformazione ancora in atto sui temi di salute mentale. 

Quello stesso meccanismo semplificativo, con opportune variazioni, viene tuttora applicato a ogni categoria di giovani che mostri insoddisfazione per il mondo che si è trovato suo malgrado ad abitare. Senza aiutarci a comprendere realmente i fenomeni e a trovare ad essi soluzioni efficaci, non ideologicamente o emotivamente determinate. 

Discernere e tenere in conto la qualità delle evidenze scientifiche è fondamentale quando si vogliono pianificare politiche educative e sanitarie pubbliche. “Poiché le decisioni personali e politiche vengono spesso prese sulla base dello stato delle conoscenze scientifiche in quel momento, è imperativo che i risultati scientifici disponibili siano della massima qualità e che debbano essere riportati nel modo più critico e ampio possibile al pubblico e ai decisori al fine di evitare che decisioni individuali, istituzionali o politiche siano prese sulla base di un'interpretazione errata o semplificata”. È quanto hanno scritto lo psichiatra e suicidologo canadese Tyler Black e coll. in un commento e nella successiva replica, prendendo parte a una discussione sul tema della pandemia da COVID-19 e salute mentale promossa da una rivista specialistica canadese. 


 

L’esortazione di Black e coll. è chiara: “Pertanto, invitiamo i ricercatori e i responsabili politici a dare la priorità a progetti di ricerca trasparenti e solidi che possono aiutare a districare le complesse relazioni tra fattori di stress legati alla pandemia, chiusura delle scuole ed esiti di salute mentale”. 

Nella sua disamina, il gruppo canadese ha individuato le incongruenze di alcuni studi disponibili: 

“Hertz et al. hanno riportato un'associazione tra didattica virtuale e aumento del rischio di problemi di salute mentale, rispetto agli studenti che frequentano la scuola in presenza o che seguono una didattica combinata (10). A causa della natura trasversale di questo studio, non è stato possibile determinare la causalità e la direzionalità. Gli autori riconoscono che potrebbe essere che i bambini e le bambine con problemi di salute mentale più gravi hanno maggiori probabilità di partecipare alla didattica virtuale o ibrida. Più o meno nello stesso periodo, un’altra indagine ha indicato che i genitori riportavano che la salute mentale dei loro figli si deteriorava di più in coloro che erano in "didattica a distanza" (24,9%) rispetto a chi era in "didattica in presenza" (15,9%), ma alle domande dirette sui sintomi relativi alla salute mentale, la percentuale di genitori che indicavano elevati sintomi di depressione (4,4%), ansia (6,3%) e stress (9,2%) nei loro figli e figlie era molto più bassa, senza differenze tra le modalità di didattica (11)”. 

Il gruppo ha analizzato anche i pochi studi longitudinali condotti fino ad ora: 

“Una meta-analisi di 38 studi longitudinali di coorte su bambini e adolescenti ha mostrato un piccolo aumento (variazione media standard di 0,114) nei sintomi psichiatrici in aggregato, tuttavia non significativo (intervallo di confidenza al 95% da -0,030 a 0,257, p=0,120) (12). Gli studi di coorte longitudinali pubblicati dopo il completamento di questa meta-analisi dimostrano risultati più eterogenei. Nei Paesi Bassi, una coorte di adolescenti studiata su tre punti temporali, uno prima della pandemia e due durante la chiusura completa delle scuole (aprile 2020 e gennaio 2021), ha trovato evidenza di un piccolo aumento dei problemi depressivi, ma nessun aumento o diminuzione di ansia, comportamenti oppositivi, problemi psicotici o suicidari (13). Uno studio longitudinale tedesco su 1.618 bambini di età compresa tra 7 e 18 anni ha riscontrato piccoli deterioramenti durante la pandemia (fino a ottobre 2021) nella qualità della vita e nei sintomi di ansia ma non nei sintomi depressivi (dimensioni dell'effetto del coefficiente φ rispettivamente di 0,27, 0,18 e 0,08) rispetto a un campione di riferimento pre-pandemia, ma tale campione di riferimento è stato raccolto tra il 2014-2017, il che potrebbe trascurare le tendenze pre-pandemia (14). Una coorte canadese di 168 giovani dell'Ontario di età compresa tra 14 e 24 anni ha mostrato punteggi stabili per i disturbi internalizzanti ed esternalizzanti durante la pandemia rispetto ai dati pre-pandemia, con una significativa diminuzione dei disturbi da uso di sostanze (15)”. 

Inoltre, nella coorte olandese sopra descritta, è stata condotta un’analisi su “un sottogruppo di adolescenti con problemi emotivi e comportamentali più gravi nel periodo pre-pandemico e ha mostrato, contrariamente alle aspettative, una diminuzione dei sintomi psichiatrici durante i due periodi di chiusura della scuola e del lockdown pandemico (13)”. 

Black e coll. chiariscono anche i dati ufficiali sugli accessi ai pronto soccorso: 

“I Centers for Disease Control hanno riferito che non ci sono state differenze significative nei tassi di suicidi in età pediatrica negli Stati Uniti nel 2020 e che i cambiamenti associati alla pandemia nel numero di visite al pronto soccorso per problemi di salute mentale pediatrici variavano in base al sesso, all'età e alle condizioni di salute mentale (20, 21). Nei ragazzi di età compresa tra 5 e 17 anni e nelle ragazze di età compresa tra 5 e 11 anni, le visite al pronto soccorso negli Stati Uniti per tutta la salute mentale sono diminuite durante i primi 20 mesi della pandemia, mentre si è verificata una diminuzione iniziale e un successivo aumento per le ragazze di età compresa tra 12 e 17 anni. All'interno di quel sottogruppo di ragazze di 12-17 anni, c'era anche eterogeneità, poiché le visite per quattro condizioni non sono cambiate (depressioni, disturbi d’ansia, traumi e disturbi ossessivo-compulsivi), per due condizioni sono aumentate (tic, disturbi alimentari), e per tre condizioni sono diminuite (comportamento dirompente, disturbo da deficit di attenzione iperattività e disturbi bipolari). È importante notare che i cambiamenti nell'accessibilità ai servizi non di emergenza possono essere responsabili di qualsiasi aumento degli accessi ai pronto soccorso per condizioni di salute mentale, aggiungendo confusione a qualsiasi associazione temporale”. 

Pertanto, le affermazioni secondo le quali la didattica a distanza sia stata dannosa per la salute mentale di bambine/i e ragazze/i “non è suffragata dalle prove attualmente disponibili secondo la nostra analisi della letteratura” affermano Black e coll. e continuano sottolineando che “dichiarazioni fuorvianti supportate da revisioni acritiche delle evidenze equivalgono a deplorevole disinformazione. Inoltre, la disinformazione diffusa dalle organizzazioni professionali e amplificata sui social e sui media popolari non è una cosa da poco”. 

Difatti, aggiungo, questo tipo di disinformazione crescente sulla salute mentale allontana dalla conoscenza dei problemi e dei fenomeni inseriti in un contesto spazio-temporale, incrementa credenze, patologizza esperienze psicologiche sane, solidifica lo stigma verso condizioni psichiatriche invisibili, rinuncia a una sensibilizzazione efficace, distorce le decisioni politiche e, soprattutto, dirotta le risorse disponibili verso interventi inappropriati. 

Sono l’attenzione e la preoccupazione validamente informate, l’analisi critica delle conoscenze disponibili e la verifica dei dati che dovrebbero guidare il discorso pubblico, a meno di non voler contribuire ad accrescere quella confusione che costituisce il clima più adatto per impostare soluzioni – a scuola o nei servizi sanitari - improvvisate, determinate da interessi ideologici e commerciali, con consenso politico assicurato e senza essere tenuti a dimostrarne efficacia o effetti collaterali. 

Tornando agli articoli sopra citati, Black e coll. affermano che 

“La distorsione delle prove scientifiche si verifica in diversi problemi di salute pubblica (in passato con la sindrome feto-alcolica e l'impatto dei videogiochi sulla violenza giovanile, ad esempio), in cui i danni sono travisati o esagerati con meccanismi causali semplicistici mentre le ricerche che minimizzano le paure o le informazioni che contrastano il panico morale vengono ignorate (23, 24)”. 

Insomma, il contrasto alla disinformazione è un’azione fondamentale per la salute pubblica che guida e distingue una comunicazione responsabile fatta nell'interesse della comunità.

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