lunedì 22 gennaio 2024

Scuola, ma davvero con carta e penna si impara di più?

 

Ogni volta che un nuovo strumento tecnologico entra in uso per la scrittura, si assiste al proliferare di storie e notizie che allarmano sui terribili pericoli per la specie umana derivanti dal rimpiazzare la tecnologia precedente. Quello che poi accade realmente ogni volta è che ampliamo, in base alle risorse economiche e ai bisogni del momento, la gamma degli strumenti per scrivere dotandoci di quelli vecchi e dei nuovi e arrivando, con ampi divari di opportunità, a differenziarne l’uso in base agli scopi individuali.

Proprio alcuni giorni fa è rimbalzata la notizia sullo stato di salute della scrittura tra gli studenti universitari. Un quotidiano con malcelato ardore ha titolato: "I figli di WhatsApp arrivano all'università, ma non sanno più scrivere un testo complesso".

Chissà cosa avrà pensato di un titolo del genere Nicola Grandi, il professore di Linguistica responsabile della ricerca della quale veniva diffusa la sintesi dei risultati! In 45 atenei italiani sono state raccolte le produzioni scritte, spontanee e formali, di oltre 2.000 partecipanti per analizzarle negli aspetti linguistici. La ricerca è partita dopo una lettera inviata nel 2017 da 600 professori al Presidente del Consiglio, al ministro dell’Istruzione e al Parlamento che denunciava le carenze linguistiche degli studenti che nei loro elaborati commettevano errori “appena tollerabili in terza elementare”. A ogni partecipante è stato chiesto di redigere un testo formale tra le 250 e le 500 parole in cui raccontare la propria esperienza durante il lockdown. Gli scritti, analizzati secondo numerosi parametri (tra cui lessico, sintassi e punteggiatura), presentavano in media 20 errori, la metà di punteggiatura. «L’abitudine alla scrittura in ambito informale — ha commento Grandi — sembra aver pervaso l’ambito formale. Una sorta di parlato digitato, con una assai limitata articolazione sintattica e una struttura dell’argomentazione abbastanza “spezzettata”».

Colpa di WhatsApp, dunque? La questione è molto più complessa di come è stata raccontata dai media. Dalla descrizione dello studio si evince che i testi raccolti costituiscono un campione di scrittura digitale, e dai pochi dati diffusi che il contesto culturale e di formazione (classe sociale, scuole secondarie di provenienza e numero di libri letti in un anno) ha un peso rilevante sulla qualità della scrittura dei partecipanti. Non sembra siano oggetto di analisi gli effetti del grado di alfabetizzazione digitale e della consapevolezza individuale delle regole di scrittura digitale, ma le informazioni giornalistiche sono state davvero poche.

Le campagne per la difesa della “scrittura a mano” – e, per la parte più oltranzista, della scrittura in corsivo – si propongono proprio di contrastare la degenerazione dei testi scritti, di preservarci dai cali di apprendimento e di memoria, di proteggere la crescita di bambine e bambini che iniziano il percorso di scolarizzazione e addirittura di accendere e farci usare il nostro cervello.

Si obietterà che anche la scrittura digitale è ‘a mano’, proprio come la scrittura su carta, ma nelle campagne a mezzo stampa questo dettaglio viene trascurato, probabilmente per la volontà di non citare uno strumento tecnologico, rimandando così a un’idea di scrittura con la penna come atto naturale.

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