"In un mondo ideale, ci vorrebbe un vaccino per il disturbo post-traumatico da stress, così se abbiamo avuto a che fare con qualcosa di orribile, potremmo andare dal medico, essere vaccinati, e sentirci immediatamente al sicuro - non diversamente dall'antitetanica".
La vaccinazione che riceveremo nelle prossime
settimane ci metterà al sicuro dall’infezione da nuovo coronavirus ma non potrà
lenire i traumi di chi ha subito lunghe ospedalizzazioni, perdite continue di
pazienti tra le mani protette e lutti familiari senza riti funebri.
Le persone che hanno subito stupri, violenze,
incidenti, guerre, catastrofi naturali e attacchi terroristici possono essere
colpite dal trauma psicologico per tutta la vita e subirne le memorie intrusive
e dolorose. Solo se questi traumi vengono riconosciuti, quelle memorie
ripetitive e vivide possono essere attenuate con trattamenti psicologici
specifici. In un mondo ideale, questi trattamenti potrebbero essere accessibili
a tutti, proprio come i vaccini e liberarci dai fantasmi.
Adrian Pracon era un giovane poliziotto di vent’anni.
Giaceva a terra colpito a una spalla e in quella posizione immaginò il suo corpo
in una bara mentre veniva sepolta. Rimase lì immobile, come morto e questo
probabilmente lo salvò da un altro sparo. La sua vita non fu più la stessa.
Continuava a rivivere quei momenti e a immaginarsi altri scenari terribili. Prese
a bere, l’alcol lo stordiva e lo faceva dormire. Fu arrestato perché una notte
dopo aver bevuto picchiò due uomini. Poi iniziò a scrivere un libro sulla sua
storia per ripercorrere i ricordi della vita prima e di quella che era
diventata dopo ma nel quotidiano continua a sentire una sensazione di allarme.
Adrian Pracon fu colpito dall’ultimo proiettile
sparato dal terrorista Anders Behring Breivik il 22 luglio 2011 a Utøya, l’isola
in un lago a mezz’ora da Oslo sulla quale rimasero i corpi di 69 persone.
È proprio Adrian che accompagna le sorelle Hilde
e Ylva Østby a Utøya, dove torna ancora una volta, e insieme visitano i nuovi
edifici, la grande biblioteca e il memoriale alle vittime dell’attacco
terroristico: “Posso vedere i fantasmi di tutti quelli che andavano e venivano,
posso vedere lui. È come un film, dove vedi persone trasparenti che vanno e
vengono”.
La scrittrice Hilde Østby e la neuropsicologa
clinica Ylva Østby sono le autrici del libro Dove nuotano gli ippocampi: La
scienza e i segreti della memoria pubblicato a ottobre 2019 da Ponte alle
Grazie (l’ho letto nella versione inglese Adventures in Memory. The Science
and Secrets of Remembering and Forgetting del 2018 e tradotto gli estratti) e al quale si riferiscono le precedenti citazioni. Si tratta di una lettura davvero coinvolgente per chi si occupa di memoria, per chi vuole
studiarla e per chi ha curiosità di sapere come funziona il ricordare, in tutte
le sue sfaccettature, nel nostro cervello.
È anche un libro pieno di domande, ad esempio: “Sono Instagram e Facebook a dire la verità sulla vostra vita o a farlo è il tesoro di ricordi inaffidabili che portate nel lobo temporale?”.
Può sembrare una
provocazione ma soffermandoci ci accorgiamo che quella che emerge è la questione
se siano da considerare “più memoria” i diari e quindi anche i registri delle
nostre attività sui social media oppure le ricostruzioni che facciamo dei
nostri ricordi anche se non proprio fedeli nel contesto spazio-temporale. In
realtà, come sostengono le autrici sono solo due modalità altrettanto legittime
di ricordare gli episodi della nostra vita. Possono essere integrati e magari l’una
può venire in soccorso dell’altra quando si ha una memoria episodica non
proprio solida e dettagliata.
Nel libro ci sono anche continui rimandi agli
ippocampi, quei piccoli cavallucci marini che sono gli unici maschi del regno
animale ad affrontare la gravidanza. Perché, per la loro forma, il nome di
ippocampi fu dato anche alle strutture più interne del lobo temporale che si
sono rivelate fondamentali per la nostra memoria. Avvenne a Bologna, nel 1564,
durante la dissezione di un cervello condotta dal dottor Giulio Cesare Aranzi.
László Seress: un ippocampo e un cavalluccio marino. |
“Nello stesso modo in cui l’ecosistema oceanico
del cavalluccio marino è importante per comprendere la sua esistenza, così l’ecosistema cerebrale dell’ippocampo è
importante per comprendere come la memoria sia conservata e richiamata”.
Hilde e Ylva Østby presentano un’accurata disamina delle maggiori conoscenze che sono state raggiunte in meno di un secolo di ricerca scientifica sulle memorie, con riferimenti al famoso paziente amnesico HM, al mnemonista di Aleksandr Romanovič Lurija, a Brenda Milner, Suzanne Corkin, Eleanor Maguire, Endel Tulving, ai Nobel John O'Keefe, May-Britt Moser ed Edvard Moser, a Duncan Godden e Alan Baddeley, dei quali hanno replicato uno studio con i sub per dimostrare che la memoria è anche dipendente dal contesto: se si apprendono delle informazioni durante un'immersione strutturata, se ne ricorderanno di più alle stesse profondità che non in superficie e lo stesso vale quando quelle informazioni siano apprese in superficie.
Le autrici sono un po’ indulgenti con Elizabeth
Loftus che, pioniera degli studi sulle false memorie e sul loro impatto nelle
testimonianze rese in tribunale, ne ha fatto in seguito una carriera come
controversa consulente tecnica ben pagata in processi con accusati prestigiosi,
come l’ultimo caso in cui è intervenuta in aula per mettere in dubbio le
testimonianze contro Harvey Weinstein, condannato a marzo 2020 a 23 anni di
carcere per stupro e abusi sessuali.
Mi soffermo su altri due rimandi del libro che contiene anche pagine davvero avvincenti tra i suoi 7 capitoli.
Il primo riguarda il toccante romanzo a
frammenti Unquiet (2018) di Linn Ullmann, figlia di Liv Ullmann e Ingmar
Bergman. È un libro di memorie che non seguono un filo logico o un’organizzazione
temporale ma l’emergere spontaneo dei ricordi, proprio come accade nella vita
quotidiana di ciascuna/o quando ci tornano alla mente, apparentemente senza
legami con il contesto, episodi o sprazzi di esistenza vissuta.
“Ero la figlia di lei e la figlia di lui,
ma non la loro figlia: non eravamo mai in tre, quando sfoglio le
immagini sulla scrivania non c’è una sola fotografia di noi tre, insieme. Lui,
lei, io. Quella costellazione non esiste”.
Poi nel ricordare l’unico Natale passato insieme
al padre aggiunge: “Una settimana prima, io e Pappa avevamo parlato al telefono
e nel corso della conversazione ci siamo imbattuti nella solitudine l'uno
dell'altro. Oppure, è così che ho sempre pensato. Ho pensato che eravamo lì
l'uno per l'altra quella vigilia di Natale. Ma c'è qualcosa che non va con
questo ragionamento”. Il padre difatti trascorreva abitualmente quei giorni
dell’anno in solitudine. “Quindi forse non ci siamo imbattuti nella solitudine
l'uno dell'altro, come avevo pensato. Non aveva bisogno di me. Ero io quella che aveva bisogno di lui”.
L’altro riferimento, tra i diversi presenti nel
libro di Hilde e Ylva Østby, è il film After Life (1998) del maestro giapponese
Hirokazu Koreeda che dimostra ancora una volta – dopo il documentario Without
Memory (1996) che racconta come un amnesico viva “momento per momento” – la
sua sensibilità e le sue notevoli conoscenze riguardo ai temi della memoria,
oltre allo sguardo discreto e all’ascolto attivo della condizione umana che
caratterizzano molti suoi film.
Se fossimo chiamati a scegliere un ricordo, un
unico ricordo della nostra vita che ci accompagnerà in eterno, dopo la morte,
quale sceglieremmo?
È quanto viene richiesto ai protagonisti del
film che hanno tre giorni per scegliere. Loro sono appena morti ma prima di varcare
la soglia dell’eternità hanno una settimana di passaggio nella quale devono
selezionare il loro ricordo che sarà poi ricostruito e filmato in un set
cinematografico e così accompagnerà per sempre la loro vita nell’aldilà.
I protagonisti, giovani o anziani, scelgono
ricordi di amore, di lavoro, d’infanzia e per alcuni la scelta è più immediata,
mentre per altri quei giorni di transizione diventano un tormento, una
negazione o una rivelazione.
Ogni volta che guardo il film scelgo un ricordo
diverso.
Nel libro viene anche citato il Tetris e come
possa essere terapeutico in determinate situazioni perché impedisce a immagini intrusive
e traumatiche di ripresentarsi.
Sarà poi giustificato il timore che internet o
i dispositivi digitali ci trasformeranno in individui senza memoria?
“Le persone pensano che internet stia
rimpiazzando la memoria”, dice Eleanor Maguire alle sorelle Østby, “ma è quello
che dicevano quando furono inventati i libri. Continueremo a usare la memoria.
Anche se usiamo il GPS, abbiamo bisogno della memoria per trovare la strada –
ad esempio, nei grandi edifici come gli ospedali”.
Le autrici si congedano dai lettori con un epilogo che si adatta anche a questi tempi pandemici:
“li lasciamo andare adesso. Stanno navigando
nel mondo e nel futuro. Tutto ciò che sanno, tutti i ricordi e le esperienze
che hanno, li useranno per plasmare il mondo e renderlo migliore, diverso,
nuovo.
E ora tocca a voi”.
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